Ho in lettura, a fianco di Cronin, L’Opzione Benedetto di Rod Dreher, del quale sono venuta a conoscenza attraverso Claudio su La falsa morte – qui il suo commento.
Libro bellissimo sotto diversi aspetti, ma non è una recensione (per quanto breve come lo sono solitamente le mie) che voglio fare qui; solo annotare una “piccolezza”, un pensierino che più volte mi ha attraversato nell’ultimo anno.
E’ inscritto, direi, più che soltanto scritto, nella Dichiarazione d’Indipendenza americana il concetto di diritto alla ricerca della felicità; che scopro, per altro, essere mutuato da John Locke il quale aveva originariamente formulato la triade: diritto alla vita / alla libertà / alla proprietà.
Inevitabile per me ripensare, ogni volta che vi incappo, alla conversazione telefonica che ebbi circa un anno fa, appunto, con un ex amico. Conversazione torrenziale (quattro ore!), densa di interesse, eppure frustrante per l’impossibilità conclamata di venire a termini comuni su un argomento qualunque, quale che fosse.
E’ stato durante quelle ore che ho espresso per la prima volta la necessità di distinguere, e distinguere molto bene, fra diritto alla ricerca della felicità e diritto alla felicità tout court. Semplicemente, è il primo che ci spetta mentre il secondo non ci è dato, perché neppure esiste. Se un diritto alla felicità – senza se e senza ma – esistesse, oltre a porre un grave problema di coesistenza tra felicità, aspettative e concezioni del mondo differenti (tante quante sono le persone viventi al mondo abbastanza adulte da modellarne alcune), esso si tradurrebbe ipso facto in un vincolo stringente dell’una persona contro l’altra, nell’obbligo civile (ma privo di una morale che lo sostenga e lo renda attuabile) di perseguire la propria felicità – o meglio: pretenderla – attraverso la limitazione di quella d’altri, ugualmente sulla carta detentori del medesimo diritto a non limitare sé stessi in nessun modo e misura.
In definitiva ed in un’unica parola, un ossimoro.
Impraticabile, insensato; eppure ad oggi guida esplicita di grandi masse di persone.
Così come dell’amico che, dopotutto, difendeva tale sacro, ma per nulla santo, diritto più per cieca passione politica che per convinzione.
Io il diritto alla felicità che mi viene offerto, per la sua vacuità e per altre ragioni, francamente e serenamente lo rifiuto.
Mi tengo piuttosto stretto il diritto cristiano a conformare la mia felicità a ciò che vale qualcosa, e mi viene indicato come giusto da chi ne abbia la competenza (competenza: valore oscurissimo nei giorni che viviamo).
A volte ripenso a certe manifestazioni che mi è capitato di vedere per strada, con quei cartelli che declamavano a caratteri cubitali il diritto alla casa, al lavoro, alla salute, eccetera. Sono illusioni comprensibili, ma la trista realtà è che non esiste un “diritto” alla casa, né al lavoro, alla salute e così via. Né esiste un diritto alla felicità, alla soddisfazione sentimental-sessuale e così via.
Senza entrare in tecnicismi giuridici (diritti assoluti, diritti relativi, interessi legittimi…), usando la parola nel senso più comune e prescindendo da situazioni particolari, queste cose non sono “diritti” perché semplicemente non esiste qualcuno che abbia “naturalmente” un correlativo dovere di fornircele. Agli altri possiamo chiedere di non ostacolarci nel mentre, alla società possiamo chiedere di predisporre – come dire – il tavolo da gioco, ma poi dobbiamo giocarcela noi, con le carte che il merito o la fortuna ci hanno messo in mano.
È un argomento che incrocia un altro tema che di recente è salito alla ribalta, cioè la distinzione tra bontà e giustizia, a seguito dell’iniziativa di quel cardinale che ha pensato bene di improvvisarsi elettricista. Iniziativa che io giudico deplorevole, non tanto perché illegale, ma proprio perché immorale (la carità non si fa con i soldi degli altri) e diseducativa perché atta a confondere tra giustizia e carità.
In sintesi, giustizia è dare al prossimo ciò che è suo, perché lo merita; carità è donargli ciò che è mio, non perché lo merita, ma perché io voglio essere buono.
Se non esiste un “diritto” alla felicità, allora essere felici, ricevere la felicità, non dipende dalla giustizia ma dalla carità. Non possiamo pretendere per legge dagli altri che ci rendano felici; possiamo chiedere felicità e offrire felicità, solo per bontà e per affetto.
Tutta la storia e tutta la tragedia del mondo può essere riassunta in sola frase di uno scrittore russo, mi pare Pasternak, che spiegava così il fallimento dell’esperimento comunista: non si può obbligare ad essere buoni.
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Commento impeccabile (grazie).
Qualcuno, in tempi meno strozzati dal politically correct, avrebbe osato dire che l’elettricista improvvisato sta facendo il frocio col culo degli altri (pardonnez-moi le francais).
Nemmeno io so se si tratti di Pasternak (facciamo di sì: dopo la famosa frase attribuita a Voltaire abbiamo perso il senso del… diritto di proprietà intellettuale), ma la conosco e sì, quello è il punto. Anche perché per quel che mi riguarda, sono disposta a donarti tutto quello che ho se credo, ma prima ti voglio fare una bella radiografia.
Qui parliamo di decine di famiglie: chi sono? Cosa è stato realmente sottratto loro e cosa invece hanno strappato in sovrappiù? Perché, come, quando, dove, da chi? Eccetera. Questi fatti elementari nessuno mi pare li abbia approfonditi.
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Conoscevate il saggio di Lewis “We have no Right of Happiness”. È letteralmente il suo ultimo saggio – l’ultima cosa che pubblicato (ultimamente sto riguardando molti suoi scritti) e affronta proprio questo tema.
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No, grazie di avermelo segnalato!
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Un riassunto qui:
https://crystalkirgiss.com/2016/11/22/we-have-no-right-to-happiness-c-s-lewiss-final-words-of-caution/
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