Sincero, tagliente e pratico, questo film di tema sociale (di poco precedente ad A tempo pieno) arriva dove deve arrivare. Arriva cioè ad una storia concreta, elemento sempre più sublimato da un cinema che – come troppi politici – vorrebbe essere intellettuale, e invece è soltanto pesantemente cerebrale.
La storia: Franc Verdeau, figlio dell’operaio Jean-Claude, prima di completare il percorso universitario con la laurea inizia uno stage presso l’azienda in cui appunto il padre e la sorella lavorano. I primi giorni si fa onore, qualunque cosa ciò significhi; ma con un repentino cambio di marcia la fiducia del ragazzo nel proprio contributo, e di seguito il buon rapporto apparentemente stabilito con il “padrone” (termine rivelatore non solo di una mentalità, ma di una realtà fattuale), si deteriorano.
Perché quella che doveva essere una regolare trattativa con rappresentanti sindacali per introdurre l’orario ridotto a 35 ore, si rivela una trappola che sconvolge non solo le prospettive di Franc, ma soprattutto gli equilibri di tutti gli attori in gioco.
Con Cantet, che ho approcciato attraverso il più recente La classe (Entre le murs) – del quale sono rimasta piuttosto schifata – ho probabilmente messo il proverbiale piede sinistro giù dal letto. Perché queste seconda e terza pellicola da me viste meritano, eccome; e ad entrambe ho attribuito il voto massimo.
Ho per altro il discutibile vantaggio, in quest’ultimo caso, di toccare una materia a me non del tutto sconosciuta, dato che pochi anni fa vidi al cinema una lettura della medesima vicenda (ufficialmente ispirata ad una pièce teatrale a sua volta ispirata ad un fatto della cronaca francese, nella sua ordinarietà simile a innumerevoli fatti analoghi ovunque in Europa; ma secondo me un pochetto ispirato anche alla versione che ne fa Cantet).
Tale discutibile vantaggio ha un titolo, 7 minuti, ed un colpevole regista, Michele Placido.
Ma non ha, rispetto alla visione piana di questo Risorse umane, né anima (facciamo i desueti), né dinamismo – molto il minutaggio dedicato all’assemblea clandestina di un gruppo di dipendenti, che pur essendo comprensibile considerata l’origine del testo e non sbagliata in sé, sconfessa la natura sociale, non politica ma sociale, della vicenda e la riduce ad un polpettone di rivendicazioni individuali con la profondità di una soap opera, macchiette assortite all’italiana, e dialoghi verbosi eppure sovranamente, italianamente vacui.
Se siete tentati, lasciate che piuttosto di un consiglio vi lasci una semplice impressione: toccare la carne viva delle situazioni umane e, pur smuovendo in abbondanza la riflessione, farne uscire lo spettatore più leggero, colmo di gratitudine per essere stato parlato e non, con presunzione, letto e analizzato da un film, è un che di prezioso.
Cantet con questi due titoli dedicati al lavoro – specchio di disfunzionalità non solo economiche e sociali, ma anche personali – vi è riuscito.
La cosa che più mi dà da pensare è Nichi Vendola. Tutto il resto mi va benissimo. Ci credo ciecamente, e come sempre mi porta a un desiderio, un’idea, un vago pensiero di vedere i film (o di leggere i libri) di cui parli. Cosa che magari potrebbe anche accadere, una volta su mille. Ma insomma Nichi Vendola, porello, che t’ha fatto? Ora mi sovviene di cose che ha fatto che io giudico deprecabili. E’ vero…
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Come direbbe il buon Marzullo, “Fatti una domanda e datti una risposta” 😁
Ma, evidenze politiche a parte, non si può dire che Vendola sia un esempio di uomo a cui aspirare di rassomigliare fisicamente… no? 😉
Lo so che siete tutti trottole.
Ma, pensaci: certamente per me è particolarmente comodo, perché in dieci minuti a piedi son lì, ma dopotutto il 95% dei film e dei libri di cui finisco a parlare qui vengono dai prestiti della biblioteca.
Non si ha che da dire: stasera non fanno un tubo in tv, e decidere di fare un giro in quel luogo meraviglioso tra una flebo ed una piadina, tra un idraulico e una dichiarazione dei redditi 🙂
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