Jung, Abraxas, spaghetti e mandolino.

Mi è chiaro mo’ che l’ho letto, seppure a volo d’uccello, perché si dica di Jung che ha ispirato tanta parte della New Age – volente o nolente. L’unico modo per non mettersi le mani nei capelli scorrendo questo resoconto – che l’autore stesso temeva venisse preso per la dimostrazione ch’era pazzo quanto e più dei suoi pazienti – dei suoi sogni notturni e delle “fantasie spontanee” dettate dalla pratica dell’immaginazione attiva, consiste nel godersi la bellissima introduzione al testo ad opera del curatore Sonu Shamdasani.
E’ un libro denso di conversazioni, questo: tra Jung e la sua Anima (intesa, come da disciplina, quale principio femminile presente nell’uomo così come l’Animus è principio maschile presente nella donna), tra Jung ed Abraxas, suo alter ego à la Zarathustra, tra Jung e la sua “personalità 2”, quella da lui considerata superiore e legata all’incoscio collettivo, agli archetipi, insomma a tutti i concetti precipui del suo lavoro; che Shamdasani si premura per altro di distinguere spezzando l’annosa associazione, fortissima ma impropria, con la psicanalisi freudiana.

Scopo di tali dibattiti interiori è, secondo Jung, quello di oggettivare gli effetti dell’Anima e diventare consapevoli dei contenuti che vi sono sottesi, integrandoli nella coscienza.
Una volta acquisita familiarità con i processi inconsci che si riflettono nell’Anima, quest’ultima “perde il suo potere demonico di complesso autonomo” e diventa una funzione di relazione fra la coscienza e l’inconscio. 

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Come detto ho scorso rapidamente il testo e mi sono soffermata solo per poco, e solo su alcuni, dei sogni riportati dall’autore, saltando a piè pari tutta la (più corposa) parte dedicata all’immaginazione attiva – che, per intenderci anche se in modo piuttosto sintetico, potremmo definire “sogno ad occhi aperti con estrazione di contenuti psichici dal profondo”.
Il materiale è molto, elaborato ed assai interessante – oltre che necessario – per affrontare la sua vasta produzione: è da questo percorso di autostimolazione e successiva autoanalisi, a partire dai materiali inconsci prodotti e dalle rappresentazioni grafiche  che Jung ne fa (spesso sotto forma di mandala, di cui la versione più importante e pesante del testo è corredata, mentre non lo è la “versione studio” da me presa in prestito) che egli parte per aprire la strada a ciascuno dei succitati elementi-cardine della sua riflessione.
Io, tuttavia, sono attualmente parecchio interessata, piuttosto, ai sogni notturni, al loro contenuto e ad una trascrizione degli stessi, miei o di altri – tant’è che ho creato su questo blog un’apposita categoria. Perciò di fatto, dopo l’introduzione, ho subito stabilito di interrompere una vera e propria lettura e mi sono limitata a sfogliare e sbirciare il resto.
Non ho dunque altro da dire su Jung, se non: in culo a Sigmund Freud.

22 pensieri riguardo “Jung, Abraxas, spaghetti e mandolino.

      1. Non credo che ci sia da guardare da molte parti se lo stesso “temeva venisse preso per la dimostrazione ch’era pazzo quanto e più dei suoi pazienti”.

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        1. Il modo indicativo non sta a dire che lui credesse davvero, letteralmente, d’essere pazzo, non nel senso pieno e ficcante con cui lo intendiamo comunemente… al contrario, è indice della consapevolezza di avere idee estreme, provocatorie, disagevoli: insomma di risultare poco credibile e “sensato” per gli interlocutori.
          Se prendessimo per buono il tuo sillogismo, i tre quarti degli avanguardisti di ogni epoca e settore, medici, artisti, politici e via enumerando dovremmo considerarli pazzi – punto.
          Leonardo? Turing (che per altro, in tutt’altra maniera e per tutt’altro motivo che non la sua visionarietà, lo era davvero)? Lo stracitato ed abusato Galileo?

          Sempre a metà strada tra ironia e serietà, in A dangerous method – ci ho scritto un post di cui tra dieci minuti parte la pubblicazione – Jung afferma:
          Noi medici sani di mente abbiamo dei seri limiti.
          E’ vero nel senso più immediato che possiamo trovarci, cioè nella non-esperienza del medico che dovrebbe curare rispetto ad uno specifico malessere.
          Ma è vero soprattutto in termini più generali e al tempo stesso più stringenti. Hai mai sentito parlare di “guaritore ferito”?

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        2. E’ un concetto creato da Jung stesso – ma non lo ricordavo: l’ho ri-scoperto ora controllando. Viene citato nel film, ma ieri non vi ho nemmeno dato peso, perché è tanto abituale per la psicologia tutta, oggi, che – almeno sulla carta – appare scontato.
          L’idea è sempre quella, semplicissima: un medico che non abbia sperimentato in prima persona la ferita del suo paziente (fisica, psichica, morale) non ha i mezzi adeguati per curarlo.
          Ciò non significa che se non mi sono mai rotto un femore io, chirurgo, non possa aggiustare quelli degli altri, ovviamente… così come un psichiatra non deve per forza aver perso la brocca per capirci qualcosa.
          Però deve, senza dubbio, aver sperimentato ed integrato, fatto tesoro, del fallimento, del dolore, della morte, della fatica, ecc. ecc. Di nuovo, sembra ovvio e forse è giusto lo sia, ma non è certo cosa da nulla.

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        3. Sia chiaro: lui se l’è chiesto anche in senso letterale, più un “quanto e come” che un “se”.
          Si è chiesto se, a lungo andare nel seguire le sue intuizioni, non avesse travalicato e deragliato, diciamo così. Dunque la questione non è peregrina.
          Ma più che “matto”, quel che ho visto io è uno squilibrato.
          Al lettore cogliere che c’è una sensibile differenza.

          (Scusa, ho visto che nel frattempo mi hai risposto.
          Integro e vado a leggere).

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  1. io comunque sto dalla parte di Jung, anche perché se la normalità è un concetto di maggioranza, come facciamo a stabilire quanto è pazzo un solo individuo, solamente perché non si è adeguato a una moltitudine? Magari è proprio lui il normale o il mostro (mi viene in mente il romanzo “Io sono leggenda” di Matheson) e proprio per questo e per non essere come gli altri viene visto come un diverso? Hai detto bene tu quando, parlando degli artisti, si è spalancata una porta, in cui, nell’altra stanza, c’è un intero universo.

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    1. Premesso che non sono una relativista e credo nell’esistenza della “normalità”, anzi dellE normalità – lo preciso giusto perché chi legge non si faccia un’idea fuorviante -, è sacrosanto quanto dici: ma siamo animali abitudinari, e troviamo semplice e geometrico, ancorché sbagliato, fare l’equivalenza tra maggioranza e correttezza, maggioranza e giustizia, maggioranza e verità (o appunto normalità).
      Per restare in ambito psichiatrico (o se vogliamo: anti-psichiatrico), Ronald David Laing espresse – mi pare negli anni ’60 – il medesimo concetto.
      Io ho ripreso il suo esempio qui, spero con parole comprensibili: https://lecoseminime.home.blog/2019/10/16/joker-o-delle-migrazioni-degli-uccelli/
      Mi citi un romanzo che ho amato moltissimo, ed un autore del quale colpevolmente ho in saccoccia solo quello: che bellezza, la letteratura che esprime concetti alti utilizzando vicende e generi negletti – o almeno lo erano una volta -, facendo metafora di non uno, non due ma un sacco dei problemi umani più brucianti…! ❤

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