La malattia del romanticismo
Ah, l’amore… eh, l’amore ‘sto cazzo. Cos’è l’amore? Ognuno di noi potrebbe dare una diversa risposta, ma è indubbio che la nostra società, moderna e liberale, ne ha un’idea collettiva abbastanza precisa. L’amore per noi è un sentimento prima che una scelta, un afflato romantico anziché un’intenzione benevola nei confronti dell’altro, che è più oggetto che soggetto del nostro interesse.
E’ la malattia del romanticismo, che non colpisce soltanto l’idea di coppia e di amore ma anche il concetto di libertà, di valore, di eroismo… la malattia di chi aspetta il principe azzurro, ma anche quella dei nazisti – non ci credete? Leggete Militia di Leon Degrelle. Lo scarto tra questo testo commovente e trascinante, e la piattezza, brutalità, mediocrità dello scritto La nuova Europa, tradisce efficacemente la natura superficiale ed illusoria dell’idea romantica di mondo.
[18 giugno 1957]
[…] siamo venuti a parlare della credulità di Hitler, in così palmare contrasto con il suo generico atteggiamento di diffidenza. Ho chiesto a Schirach: “Non pensa che l’orgoglio e la presunzione gli impedissero di rendersi conto che veniva di continuo ingannato?”.
“Non credo” ha risposto Schirach che ha la tendenza a montare in cattedra. “Penso che la credulità di Hitler fosse piuttosto di natura romantica, come l’abbiamo sistematicamente favorita nella Hitler-Jugend. Il nostro ideale era quello della confraternita, credevamo nella fedeltà e nella sincerità, e ci credeva soprattutto Hitler. Penso che fosse portato a poetizzare la realtà”.
Sono rimasto per un istante a bocca aperta: non avevo mai visto le cose da questo punto di vista. Poi, però, mi è venuto alla mente Goering con la sua mania degli abiti fastosi, e Himmler con la sua fissazione per il folclore, e mi sono rammentato dell’amore che io stesso nutrivo e nutro per le rovine e i paesaggi idillici […].
Spesso mi è stato chiesto, anche da persone che mi conoscono bene, se non fossi innamorata di Andrea. Anzi, una persona in particolare non me lo chiedeva affatto, lo affermava bensì con convinzione.
No. Se per amore intendiamo l’innamoramento, il desiderio di condividere vita, attenzione e corpo con un altro, la risposta è sempre stata no. Se per amore intendiamo l’attaccamento romantico, idealizzato, ad una persona ed a ciò che rappresenta invece sì: l’averlo creduto migliore di com’era, aver creduto al suo tentativo di dipingersi come persona sensibile e raffinata, l’aver ceduto alle sue malìe ed aver assecondato la sua mania di protagonismo: se questo è “amore”, sì, ho permesso ad Andrea di mettermelo al collo ed incaternarmici.
Non ha fatto tutto da solo, beninteso: lungi da me flagellarmi pubblicamente, ma così come il nazismo rispondeva perfettamente alle aspirazioni tedesche di allora, così anni fa il fascino di Andrea non ha fatto altro che solleticare la malapianta del mio orgoglio, promettermi di legittimare la mia superbia, illudermi che potevo essere la persona buona che ero stata allevata per essere ed al contempo una creatura superiore, altéra, eletta.
La grande tentazione
Andrea, nel suo narcisismo, ha compiuto né più né meno il lavoro del “grande tentatore”: che consideriate Satana una creatura reale, oppure un simbolo, una rappresentazione concettuale del male; la pretesa di rifare il mondo a propria immagine e somiglianza, dilaniando ciò che si oppone alla nostra “irresistibile forza”, al nostro delirio di potere, significa essere satanisti.
[22 novembre 1949]
Ancora una volta Dorian Gray, ossia l’esistenza in prestito. Indubbiamente, l’incontro con Hitler ha introdotto nella mia vita alcunché di estraneo, qualcosa che fino a quel momento mi era remotissimo: io, l’assistente di architettura, sostanzialmente anonimo, privo ancora di fisionomia, all’improvviso ho cominciato a concepire idee sorprendenti. Sognavo l’architettura di Hitler. Sogni, sogni.
Ragionavo secondo categorie nazionali, in dimensioni da grande Reich – e niente di questo era il mio mondo. Comunque, è da Norimberga che me lo dico convinto: Hitler, il grande tentatore. Ma lo era davvero? Mi ha distolto da me stesso? O proprio quel complesso sentimento di comunanza, che tuttavia, qualsiasi cosa io possa dire o scrivere, continua a sussistere, non sta a indicare che anzi Hitler mi ha svelato a me stesso?
[30 gennaio 1964]
[…] Di lì a pochi mesi, il caso mi aveva fatto conoscere Hitler, e da quel momento tutto era mutato, la mia esistenza ha cominciato a svolgersi in uno stato di perenne, altissima tensione. E’ singolare con quanta rapidità io mi sia scrollato di dosso ciò che fino a quel momento mi era sembrato così importante: la vita privata con la mia famiglia, le mie aspirazioni, i principi architettonici. Senza mai però avere la sensazione di una frattura o, peggio, di un tradimento, ma anzi di liberazione e ascesa, quasi che soltanto allora avessi avuto quello che era davvero mio. Nel periodo successivo, Hitler mi ha concesso molti trionfi, esperienze di potenza e gloria – ma mi ha anche distrutto tutto: non soltanto tutta la mia opera di architetto, non soltanto il mio buon nome, ma soprattutto l’integrità morale. Condannato come criminale di guerra, privato della libertà per metà della mia vita, gravato di un’ineliminabile sentimento di colpa, mi trovo per giunta alle prese con la consapevolezza di aver fondato la mia intera esistenza su un errore; condivido con molti tutte le altre esperienze: questa, invece, è soltanto mia.
Ma posso davvero affermare che Hitler è stato, nella mia vita, la grande forza distruttrice? A volte ho l’impressione di dovergli in pari tempo tutte quelle spinte in fatto di vitalità, dinamismo e fantasia, che mi davano la sensazione di potermi affrancare dalle limitazioni terrene. E che cosa importa il fatto che ha infangato il mio nome? Senza di lui, ne avrei uno? Paradossalmente si potrebbe addirittura affermare che è proprio questa l’unica cosa che Hitler mi ha dato, e che non potrà più essermi tolta. Si può gettare un uomo nella storia, ma è impossibile togliernelo. Sono stato costretto a queste riflessioni leggendo lo Hannibal di Grabbe, e precisamente il passo in cui il generale cartaginese, giunto alla fine di ogni sua speranza, si sente chiedere dal suo schiavo negro, prima di bere la coppa col veleno, che cosa ne sarà, dopo, di loro, e la sua risposta è: “Dal mondo non usciremo, vi siamo confitti”.
E potrei io, mi chiedo adesso, uscire dalla storia? Che significato ha per me il posto che vi occupo, per piccolo che sia? Se trentun anni fa mi avessero posto di fronte alla scelta tra diventare architetto capo di Augusta e di Gottinga, con la vita tranquilla e ordinata che questo comporta, una bella casa nei sobborghi, due o tre commissioni all’anno, le ferie con la famiglia a Hahnenklee o a Norderney, oppure la gloria e la colpa, il compito di trasformare Berlino nella capitale del mondo, e infine Spandau e la sensazione di aver fallito la mia intera esistenza, per quale delle due possibilità avrei optato? Sarei disposto a pagare ancora una volta questo prezzo? E’ una domanda che mi dà le vertigini, che a stento oso pormi, e certamente non so trovare la risposta.
E’ così. Contrariamente a quanto si crede, il bersaglio preferito del narcisista non è una persona debole (pur con le normali fragilità che a nessuno mancano), ma al contrario una persona – soprattutto donna – di carattere.
Anche per questo è così difficile staccarsi da lui, uscire dall’incantesimo ed osservare con onestà, con chiarezza i meccanismi in atto: i suoi, ed i propri… perché ci sentiamo diverse, non ci sentiamo “vittime” potenziali, ma individui che tutt’al più potrebbero a loro volta dominare su altri.
E finiamo per farlo, quando ormai l’abitudine alla cattiveria e all’indifferenza – anche se non ci ha cambiati fino in fondo – ci ha plasmato: tanto che ne siamo attratti, compiaciuti.
♡
[…] Speer non fu sicuramente un “eroe” […]. Si comportò invece in modo di gran lunga più inquietante, da quel caparbio idealista che era sempre stato, disposto ad asservirsi a qualsiasi forza superiore. Speer si sentì cioè in debito fino alla fine d’una almeno personale lealtà verso colui che aveva pur già ravvisato come il criminale distruttore del proprio paese.
In serata, con Siedler, discutiamo di quel tipo di tedesco “idealista” che lo Speer degli anni Trenta impersonò in una misura palesemente elevata. Abbiamo convenuto nel giudicarne accattivanti gli aspetti nei rapporti personali. Però il quadro muta repentinamente nel momento in cui Speer emerge a livello pubblico, acquisendo influenza e potere: allora vengono a galla le sue pretese di riformare il mondo nonché il suo carattere “assolutista”, per non dire spietato. Speer era stato uno dei seguaci più radicali di Hitler.
Rispondendo a una domanda, Speer ha dichiarato che sull’Obersalzberg, specialmente agli inizi, aveva spesso avuto la sensazione di essere capitato in un mondo assolutamente estraneo. Hitler e la gente che aveva attorno parlavano di argomenti e di problemi molto distanti dai suoi. quel modo di parlare di politica, di questioni di principio, sulla situazione del momento o su ipotetici scenari gli sarebbe risultato insolito non meno del modo di Hitler di giudicare le persone: con grande freddezza e distacco. Però, avrebbe pensato allora, evidentemente è così che un uomo politico deve guardare alle cose.
In primo piano, in tutte le considerazioni, ha aggiunto Speer, erano sempre il vantaggio tattico e, quanto alle persone, la loro utilizzabilità per determinati scopi. Fino ad allora “le cose che non avevano a che fare con i miei interessi mi avevano rapidamente stancato o annoiato”. Al Berghof invece le cose si sarebbero prospettate diversamente. Ne sarebbe stato affascinato, e proprio il fatto che certi punti di vista gli risultassero alquanto inquietanti avrebbe accentuato il fascino che ne promanava. Dopotutto Hitler era niente di meno che il centro della politica internazionale, ovvero, come lo avrebbero qualche volta chiamato, “il motore del mondo”. Il che avrebbe conferito anche a loro, come avevano constatato non senza orgoglio, una certa importanza.
Abbiamo parlato di quel Karl Otto Saur che, nell’aprile del 1945, succedette a Speer nella carica di ministro. Giudizio seccamente dispregiativo, e quasi un accenno di eccitazione nella voce altrimenti pacata.
E’ un qualcosa di inatteso. Siedler e io ne siamo un po’ stupiti. Perché dopotutto Speer gli rinfaccia di essersi comportato esattamente come lui, solo due anni dopo: altrettanto succube di Hitler, altrettanto devoto. Si accorge evidentemente dell’impressione ambigua che suscita in noi, e relativizza non senza imbarazzo il giudizio. Che rimane però sprezzante.
Speer su Goebbels: era astuto, abietto, freddo e prepotente. Tutti tratti ripugnanti. Però si sarebbero fusi in una personalità che non lo aveva lasciato indifferente, per quanto ne disprezzasse in sé ogni singolo aspetto. Dopo una breve pausa ha chiesto, ingenuamente: “E’ possibile?”.
Una storia d’amore. E di dipendenza.
La mia storia, la storia di moltissime donne, persino quella fra Hitler e Speer che qui ho voluto intercalare alle mie considerazioni perché molto calzante sotto svariati profili… tutte sono storie d’amore. Amore romantico, come l’ho brevemente descritto, un innamoramento costante che non si traduce mai in conoscenza reale del partner, in evoluzione positiva, in crescita umana, e che prevede soltanto – portato alle sue estreme conseguenze – dipendenza affettiva e sopraffazione vicendevole.
Fest ed il suo collaboratore Siedler, raccogliendo le testimonianze di Speer in merito al suo rapporto col Führer, non hanno dubbi sulla natura dello stesso: amore. Non passionale, non carnale, eppure a suo modo erotico e totalizzante.
Comprendo che non sia banale cogliere queste differenze: tuttavia esse sono la chiave. Perché ci si convinca che non solo una persona debole, o sprovveduta, o infatuata e insomma “innamorata” nel senso comune del termine possa cadere preda di soggetti tanto alienati; ma tutti noi.
Tutti possiamo rischiare di buttar via la nostra vita – figurativamente, e letteralmente – per adempiere ad un richiamo che smette di essere una libera scelta, un sentimento controllato, e diventa la vocazione di un burattino.
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Marzo 1967, Heidelberg. […] Su Hitler. Non riesce quasi a liberarsi di lui. Continua a essere una specie di astro-pilota della sua esistenza. Colgo anche un tono sentimentale, sia pure appena avvertibile, in molte affermazioni che riguardano la sua persona, oppure – meglio – l’amico committente di progetti edilizi e architettonici. […] qualcosa ancora arde sotto il grande mucchio di cenere.
Poi, durante i lavori alla Cancelleria del Reich, subito dopo la presa del potere, conobbe Hitler personalmente, e non ci sarebbe voluto molto perché ne fosse sempre più affascinato: dalle sue piccole attenzioni, dallo charme, dalle occhiate nelle quali si poteva sempre cogliere stupore e scoperto apprezzamento. Ovviamente ne sarebbe stato lusingato, ma non di più. A volte si sarebbe perfino permesso di scherzare su questi gesti di favore che le persone attorno a lui, come accadrebbe sempre, avrebbero preteso di cogliere con maggiore chiarezza di lui.
Maggio 1967. quando, nel 1935, acquistò il “capanno-laboratorio” nelle Alpi, ha detto Speer, lo avrebbe fatto, per quanto ricordava, non tanto per trovarsi sempre a portata di mano di Hitler, quanto per sottrarsi agli imprevedibili impicci cui era costantemente esposto a Berlino. Si sarebbe voluto provvedere di un luogo accogliente, per lavorare con tranquillità, ma poi “l’esagitato Hitler” non glielo avrebbe permesso.
Probabilmente, ha aggiunto poco dopo, volle però anche soggiornare non troppo lontano dalla residenza di Hitler: chi poteva ricordarsi, dopo tanto tempo, di certi moventi così lontani? In ogni caso non avrebbe esistato un attimo quando il dittatore, circa due anni dopo, gli offrì una casa sull’Obersalzberg. E naturalmente si sarebbe sentito lusingato da quel gesto.
[…] Non meno spazientito reagì ai ripetuti tentativi miei e di Siedler per convincerlo a fornire una spiegazione esauriente del suo temerario, per non dire “folle” ritorno nel bunker della Cancelleria del Reich, a Berlino, nella notte fra il 23 e il 24 aprile 1945.
Cercò di giustificare questa decisione affermando di aver sentito la necessità di congedarsi sul piano privato e personale da Hitler. Ma un congedo c’era già stato, tre giorni prima, dopo il festeggiamento del compleanno di Hitler.
Possibile – ci domandammo – che i sentimenti che provava per quell’Hitler che egli stesso, e da parecchio tempo ormai, aveva riconosciuto come un “criminale” e che come tale lo aveva definito nel suo entourage, fossero ancora talmente forti, persino in quella fase, che si sarebbe “disprezzato per tutta la vita” senza quel gesto avventuroso? Più forti anche dell’istinto di sopravvivenza, sollecitato dalla doppia paura di cadere sotto i colpi di un plotone d’esecuzione improvvisamente convocato da Hitler o per mano sovietica?
[…] Speer si chiese, come già prima durante il tragitto dalla Porta di Brandeburgo alla Cancelleria, se Hitler lo avrebbe accolto con indifferenza, o forse invece commosso fino alle lacrime, oppure se non avrebbe deciso di convocare il plotone di esecuzione. Hitler era sempre stato imprevedibile e lunatico nelle sue decisioni, e verso la fine della guerra più che mai.
[…] In un certo senso per ricondurre il discorso alle questioni “di servizio” e quindi alla realtà, Speer espose in una pausa del colloquio la questione dei direttori dell’industria Skoda i quali volevano “andare in Occidente”, cosa che Hitler sorprendentemente autorizzò subito. Inconsapevolmente a quel punto anche lui, Speer, piombò nuovamente nel suo “stato d’animo malinconico”, perché avrebbe ovviamente ripensato ai sogni comuni ormai così lontani da quel deserto di rovine attraverso il quale era venuto e, nonostante tutti i recenti contrasti tra di loro, sarebbe stato preso da una “grande commozione”.
Già sulla via del ritorno, lungo la spiaggia, Speer dice che, tutto sommato, gli sembra di non aver affermato con sufficiente forza quanto continui a ritenere giusto e opportuno quel suo essere tornato a Berlino per congedarsi da Hitler.
E forse non avrebbe neppure sufficientemente rilevato che la causa determinante che lo indusse a tornare in città era proprio Hitler: non voleva dileguarsi alla cheticella. Poi ha assicurato, quasi testualmente ma fra molte esitazioni: “Dopo anni di progetti comuni e anche di una certa amicizia non potevo agire per mesi contro i suoi ordini e poi tagliare semplicemente la corda. Per di più con una menzogna! Mi sarei disprezzato per tutta la vita!”.
Siedler ha osservato che si trattò dopotutto della fine di un amore […]
In serata abbiamo discusso con Siedler della “folle” ovvero (ed è il meno che se ne possa dire) “terribilmente adolescenziale” decisione di Speer di tornare, tre giorni dopo il congedo ufficiale in occasione del compleanno di Hitler, ancora una volta nella Cancelleria per un commiato “del tutto personale”. Tutti gli argomenti che aveva esposto per spiegare il bisogno di confessare a Hitler il suo “tradimento” erano suonati alle mie orecchie, in una maniera del tutto “tedesca”, insopportabilmente kitsch. Una profonda amicizia non poteva finire con la menzogna, l’infedeltà o con qualche altra volgarità, mi aveva dichiarato Speer socchiudendo gli occhi, tutto commosso da se stesso.
Ho spiegato a Siedler le ragioni per cui, durante tutto il periodo che avevamo trascorso insieme, non mi ero mai sentito così lontano da Speer come in occasione di quella confessione tanto franca quanto orribile: aveva non solo rischiato la vita per amore di un criminale irresponsabile, ma anche rimosso ogni pensiero della famiglia, mentre sullo sfondo si agitava spettralmente un concetto di fedeltà da tempo svuotato e innumerevoli volte tradito da Hitler. Ma che mondo era mai quello in cui Speer era vissuto?!, ho chiesto a Siedler, e gli ho raccontato d’aver formulato, alla fine, la stessa domanda anche a Speer. Al che Speer aveva fatto mostra ancora una volta di quel suo sgradevole sorrisino da “iniziato” e quindi aveva risposto: “Lei non lo può capire!”. E in ciò aveva sicuramente ragione.
Speer, la mattina dopo, sul suo rapporto con Hitler: non bisognerebbe dimenticare che la loro non fu una relazione solo politica. Molti vi scorgerebbero componenti soltanto egoistiche: cioè il suo interesse agli incarichi importanti, alla straordinaria carriera. Però sarebbe uno sbaglio. Ci sarebbero stati anche sentimenti. Ma chi, ha aggiunto più o meno, può descrivere le cause delle proprie emozioni, il loro inizio, la loro intensità e il loro svanire come se si trattasse di un compito di aritmetica?
L’ultima sera Speer si è improvvisamente domandato come mai Hitler non avesse mai consegnato anche a lui una di quelle capsule di cianuro che avrebbe distribuito tanto generosamente a dritta e a manca. Se ne conoscesse la ragione, avrebbe anche la risposta alla domanda dei “veri sentimenti” che Hitler “provava per me”.
In ogni caso è convinto che Hitler non si fosse semplicemente dimenticato di dargli una di quelle fiale; cose del genere non gli sarebbero sfuggite: quale potrebbe essere stata dunque la ragione?
Più tardi, con Siedler, ci siamo trovati d’accordo nel rilevare che la domanda implicita nella questione è: come mai per Speer è ancora tanto importante adesso, un tempo di vita umana dopo, riuscire a spiegarsi certe cose? Infine, un po’ ignobilmente, ci siamo detti che erano “gli aspetti inspiegabili di un grande amore”.
Sì, l’amore.
Dall’amore guardatevi bene.
Tutti i post precedenti:
> 0.: 16/12/16
> 1.: Come riconoscerli
> 2.: L’ebrea e la Madonna
> 3.: Anorexia
> 4.: Il re dei castelli di carte
> 5.: Oggetti Volanti Identificati
È un po’ complicato da fuori capire questo parallelismo tra gli infatuati, i soggiogati dalla personalità di Hitler, gli adepti fanatici di una dottrina che nel capo si impersonificava, ed un’attrazione nemmeno sessuale, se capisco bene, ma di pura manipolazione di un desiderio comprensibile peraltro di essere apprezzati, considerati, una speranza di poter essere anime gemelle a cui è seguita una dura disillusione, come capita purtroppo. Ma lui che voleva alla fine? Questo non l’ho ancora capito, ma ci saranno altre puntate giusto? Attendo fiducioso.
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Speer voleva proprio ciò che tu scrivi: trovare un compimento nella sua devozione.
Sta comunque a noi singolarmente cercare l’ottica giusta in cui leggere la sua vita, perché lui stesso non è stato in grado di trovarla.
C’è identità, più che parallelismo: la relazione con una persona narcisista (cosa che per altro Hitler era) è di fatto una dittatura, la mia relazione con Andrea non è stata diversa, se non per circostanze storiche, dalla loro.
Non ci saranno altri post, questo è il conclusivo.
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Mumble mumble… raccontone complesso… devo riordinare le idee e riordinare i paragrafi perché essendo spesso lontano dal blog, .. ok mi sono perso, riparto da 1!
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😉 Sì, beh, è complesso effettivamente.
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Più ardua e la sfida più … no aspe’ com’era? 🙂
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Ahah, boh… io quando la sfida è ardua di solito passo la mano e mi piazzo sul divano 😉
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Allora che il divano ti assorba ^_^
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Amen!
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Il racconto è veramente complesso e intricato ma comprensibile e pieno di quesiti interessanti. Comunque l’amore non è un sentimento così semplice come possono pensare tanti. E l’amore vero è una cosa complessa e difficile e prevede che i due si amino a vicenda senza sottomettere l’altro. Se uno dei due oscura l’altro allora non per me non è vero amore.
Purtroppo in questi tempi in cui si parla spesso (anche troppo) di amore sia nel cinema, sia nei libri, sia nelle canzoni (soprattutto nelle canzoni), sono veramente pochi quelli che riescono a mostrare l’amore per quello che è senza renderlo una cosa banale da vendere e commerciare
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Grazie ♡
No, davvero, l’amore è qualcosa di molto diverso da quello in cui “crediamo”.
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Che poi moltissimi degli attributi che attribuiamo all’amore sono esprimibili con altre parole. Tipo: “Amore è pensare prima all’altro che a te” – Ah no, quella è abnegazione. “Amore è voler condividere tempo e passioni” – Ah no quella è amicizia. “Amore è desiderio del corpo dell’amato” – Ah no quella è sessualità. “Amore è volere il bene dell’altro” – Ah no quella è generosità. “Amore è che l’altro faccia la sua vita” – Ah no quella è indifferenza. “Amore è lasciare che mi guidi” – Ah no quella è dipendenza. E così via… Quindi l’amore è tutto questo, ma anche un insieme di “ah no quello è”.
La cosa che per me si avvicina di più è lasciare che l’altro canti la sua melodia e io la mia, ed è amore se assieme le due melodie fanno una bella canzone.
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Da cristiana “amare qualcuno è volere il suo bene” la trovo l’espressione più corrispondente. Ma non solo di questo vive l’uomo, anche di alcune delle cose che tu citi, appunto; che insieme ad altre ancora possono darne un’immagine polimorfa, ma sana.
Perciò ben vengano gli intrecci umani più diversi, purché “sostenibili”.
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Che cos’è l’amor
Chiedilo al vento
Che sferza il suo lamento sulla ghiaia
Del viale del tramonto
Che cos’è l’amor
È un sasso nella scarpa
Che punge il passo lento di bolero
Con l’amazzone straniera
E vai Vinicio!
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😙🎶
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Questi soggetti narcisisti sono senz’altro abilissimi manipolatori e tentatori. Sanno esattamente quali corde toccare per ottenere l’effetto desiderato ed è interessante la tua lettura delle possibili “vittime” che senz’altro con il loro “carattere” stimolano e attivano maggiormente l’azione dei narcisisti. La cosa devastante è che questi narcisisti riescono anche ad instillare molteplici dubbi nelle loro vittime al punto che le vittime rischiano di portarsi in giro per anni incertezze riguardo loro stesse, sulle loro capacità, identità, etc. Io penso che i tentacoli di queste persone vadano eradicati nettamente, strappati fino all’ultimo pezzettino affinché non continuino a germogliare. Richiede forza e coraggio e una capacità di elevarsi al di sopra che si mantenga nel tempo nonostante qualche cedimento. Come hai detto tu le vittime dei narcisisti spesso non sono persone deboli, per questo sono certa che in molti casi sia possibile andare oltre. E poi, l’amore, l’amore dobbiamo averlo anche verso noi stessi.. Direi complimenti per esserti staccata da questo “Andrea”!!! ❤
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Un commento molto esatto, che meriterebbe una cornice ed un post tutto per sé: il succo della faccenda è proprio questo, e direi che per aiutare davvero persone simili la miglior cosa è abbandonare ogni tentativo di compromesso o di presenza “parziale” – che tanto non funzionerebbe… – e scaricarli. Un messaggio netto, inequivocabile, che per altro gli rivolta contro le loro stesse armi. Non basterà che lo faccia uno, non basterà che lo facciano due, ma è l’unico modo di scardinare il circolo vizioso. Almeno per sé.
Detto questo, cuori a profusione per tutte noi che abbiamo, o abbiamo avuto, questa palla al piede. Facciamo verde speranza… 💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚💚 (ecc.)
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Il problema di queste persone narcisiste è che non si mettono in discussione (se lo fanno è sempre per un secondo fine..), e ritengono che i problemi siano provocati sempre dagli altri, mai da loro stessi. Quindi è estremamente difficile aiutarli. Io personalmente ho deciso che il ruolo di “crocerossina” non mi si addice per nulla. Mi associo ai cuori a profusione!! ❤
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