Primo Maggio, più tristezza che coraggio.

Non scrivo praticamente mai sulle festività civili, come del resto pure quelle religiose le degno limitatamente, e dovrei invece badarci di più.
Ma mi è capitato di leggere questo post sul lavoro (invisibile, non ricosciuto socialmente né tantomeno giuridicamente, negletto) dei caregiver familiari e ci tengo a girarvelo.
Ricordare che esiste un disegno di legge che vorrebbe garantire un riconoscimento economico minimo, garanzia assicurativa e contributi previdenziali a chi dedica l’intera vita all’assistenza di un parente, genitore figlio o altro che sia, spesso essendo costretto a rinunciare per questo al proprio lavoro, alla vita sociale, alla salute stessa non serve proprio a niente, se non a tenere desta la mia attenzione sulla cosa e, spero, a renderla nota ad altri.
Il succitato disegno di legge (proposto ed ottenuto dopo un lunghissimo tempo di lotte dalle associazioni) è bloccato in parlamento da due anni, lettera morta, e di conseguenza fino a che non verrà discusso e regolato anche il relativo tesoretto è aria fritta.

Che lo stato sociale italiano da sempre benefici della coesione familiare è arcinoto ed è in sé cosa buona.
Che da decenni la famiglia sopperisca più del giusto e del dovuto alle falle del sistema sempre meno sociale e sempre più liberista è altrettanto noto, ma non da tutti accettato come fatto.
Noi continuiamo a soppravvivere, ma non chiedeteci di festeggiare.

16 pensieri riguardo “Primo Maggio, più tristezza che coraggio.

  1. Lo stato sociale ha subito attacchi subdoli ed espliciti, riduzione delle risorse, concentrazioni… tante situazioni rimangono scoperte, il lavoro di cura e’ uno di questi, gli aiuti a volte ci sono ma parcellizzati tra diversi enti (comuni, bonus…) che costringono a cacce al tesoro… il lavoro di cura poi è sempre stato dato per scontato, come un di più rispetto alle occupazioni “normali”, tra l’altro per il 90% o più a carico delle donne. Forse un reddito universale riuscirebbe a coprire in parte o almeno dare un minimo di tranquillità, certo di una legge ci sarebbe bisogno… buon primo maggio!

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    1. Mi piace infatti che sia stato usato il termine “lavoro”, perché assistenza a così ampio raggio e malattia sono di fatto lavori a tempo pieno, ma non sono considerati tali – non solo dalle istituzioni: pochi fra chi non le vive ne capiscono la portata ed il peso.
      Su un ipotetico reddito universale (che forse, così chiamato, è più chiaro di “reddito di cittadinanza”, pure più preciso), caschi in piedi: per me un reddito minimo a qualunque cittadino, non legato al lavoro e non condizionato dal reddito percepito dovrebbe essere un assunto di uno stato democratico moderno.
      Purtroppo questo è (stato) attuato e dimostrato possibile, anche se non a tutti gradito, solo in paesi ritenuti avanzati dal punto di vista dell’equità sociale (che tristemente sono gli stessi peggiori in materia di bioetica): i soliti nordici e dintorni.

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      1. “paesi ritenuti avanzati dal punto di vista dell’equità sociale (che tristemente sono gli stessi peggiori in materia di bioetica)”: penso che ci sia un malinteso concetto della nozione di “vita degna di essere vissuta”. Sembrerebbe contraddittorio che paesi che estendono il welfare azzerino le nascite di bambini con sindrome di Down, per esempio, ma alla base, secondo me, c’è una forte idea, come dicevo, di vita degna di essere vissuta. Una vita degna è quindi quella in cui ho un reddito che mi permette di vivere e, allo stesso tempo, di non avere un figlio che dipenderà da me molto più di un figlio cosiddetto normale.
        Occorrerebbe fare una salto e passare a far sì di rendere dignitosa la vita di tutti: di chi non ha lavoro, di chi ha una disabilità, dei genitori di un disabile. Tanto per coniare uno slogan: dalla vita degna di essere vissuta alla dignità per tutte le vite.

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  2. Senza pensare che se ad esempio un caregiver si ammala, e difficilmente- o più spesso, in maniera impossibile – qualcuno lo può sostituire, non c’è alcuna assistenza. Una mia carissima amica vive questa situazione con grande angoscia, ha paura di ammalarsi, perché si domanda cosa ne sarà di sua figlia…. non avendo più lei i genitori e dovendo suo marito lavorare per mantenere il nucleo familiare.

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    1. La capisco bene.
      Per il dopo di noi qualche soluzione è stata pensata, per ora più tecnico-economica che di inserimento e accudimento in un nucleo di affetti… e temo ce ne vorrà, ancora, per arrivare a interventi solidi e significativi; se mai ce ne saranno.

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  3. La parola “lavoro” ha assunto, nel tempo, un significato burocratico-formalista, legato al linguaggio politico e sindacale. La parola “lavoro” (spesso, l’articolo “il” rafforza questo orientamento) significa, correntemente, qualcosa di sempre più vicino al “posto di lavoro”, al lavoro retribuito. Per tornare a un senso, invece, più profondo e, credo, più ricco e autentico, della parola, ci soccorre il dialetto. Nei miei dialetti (romagnolo e bolognese) le parole “lavour” e “lavurìr” indicano un’applicazione continua ad un pensiero; un rovello, quasi; si tratta, ecco, di un’azione della mente, assai più che delle mani. Si dice, infatti “avere” un “lavour”, ma mai “fare” un “lavour”.
    In questo senso, anche l’espressione, forse un tantino logora, della Costituzione (“fondata sul lavoro”) potrebbe ri-acquistare un senso più ampio e più pieno; se la pensassimo, cioè, come “fondata sul darsi da fare”.
    La questione mi richiama il famoso equivoco del “diritto alla felicità”, secondo la vulgata inscritto nella Dichiarazione di Indipendenza degli USA. Non è così. Il diritto è alla “ricerca” della felicità. Così, per precisare le cose, occorrerebbe aggiustare il senso del “diritto al lavoro”: non dovrebbe esserci quella connotazione passiva che dipinge certi caratteri mediterranei, ma una spinta personale all’operosità, al “darsi da fare”. Al “lavour”.

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