Sul mare .10: Terrore dal mare, William Langewiesche

Dato che viviamo in terraferma, e quasi sempre lontano dal mare, possiamo anche fingere di non sapere che il nostro è un mondo d’acqua […] oltre la linea dell’orizzonte c’è qualcosa che non si lascia sottomettere: la matrice delle onde, la distesa anarchica del mare aperto.

Con queste parole, dalla prima pagina, Langewiesche ci mette in guardia dall’adagiarci nella sensazione – diffusa negli animali di terra – che il mare sia sì romantico&ribelle, ma pur sempre un concetto più che una realtà, e per giunta un concetto distante.
La libertà che il mare tutt’ora incarna, invece, è ben lungi dal rimanere uno spazio nel quale ritrovare se stessi, riscoprire il legame con la natura e l’essenzialità – tutte cose reali, ma marginali.

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In una fase storica in cui ogni fazzoletto di terra viene rivendicato da questo o quel governo, e la cittadinanza è considerata quasi una precondizione dell’esistenza umana, il mare rimane assolutamente libero.

Sì: libero. O per intenderci meglio, senza regole. Roba da pirati insomma, che infatti oggi non meno di ieri “infestano” le distese oceaniche – e questo già lo sapevo. Ciò che non sapevo è che non si parla più di qualche barchetta a vela che nel mezzo dell’oceano Indiano parte all’assalto di navi di media stazza, ma soprattutto di gestioni perfettamente organizzate e legali in possesso di grandi navi (ne sanno qualcosa la Kristal e la Rainbow Alondra, abbordate, sequestrate e rapinate; ed è già molto che l’equipaggio di quest’ultima non sia stato ucciso).
Che sia una prassi consolidata e universale, anche per le navi con intenti commerciali legali, sventolare bandiere di comodo è cosa nota. Ma questo non è che un dettaglio, perché la pirateria contemporanea “lavora”

riuscendo a sfruttare per i propri scopi sia i parametri imposti, in misura crescente, dai governi – formalità doganali, libretti e passaporti – sia, e ancora meglio, il “diritto naturale” del mare.

Pirateria non equivale soltanto a predazione commerciale, comunque: di bombe nei container o, peggio, navi-bomba è pieno il sonno agitato dei doganieri, e decisamente più di questi che dei burocrati che devono occuparsi di individuare i mezzi per evitarle.
Il terrorismo via mare è, per molte ragioni che l’autore spiega bene, qualcosa di tecnicamente impossibile da arginare – e risulta a maggior ragione incomprensibile come le organizzazioni internazionali dedite a tale ameno passatempo non l’abbiano da tempo fatto proprio, e in misura ben più massiva di quella che occasionalmente si manifesta.

‘Più che sfornare regole a getto continuo non facciamo. In fondo, cos’è una bandiera di comodo? Nulla, assolutamente nulla. Nel peggiore dei casi, una società privata che funziona come un registro. […] Sai, se mi chiedi un pezzo di carta, te ne tiro fuori quanti ne vuoi. Ma poi tu cosa ci fai?’
E’ probabile che abbia ragione lui. Certo, gli operatori onesti, quelli che non rappresentano una minaccia per niente e nessuno, seguiranno alla lettera i nuovi regolamenti. Ma non si può escludere che i terroristi si comportino allo stesso identico modo, rispettando norme e procedure per mimetizzarsi meglio. E’ un gioco da ragazzi. E allora il paradosso è che le sole navi non in regola ad avvicinarsi alle coste saranno le bagnarole, quasi per definizione innocue.

Pirateria e terrorismo non sono, tuttavia, le uniche cose che possono virare al tragico la vita marittima.
Langewiesche parla anche degli sversamenti petroliferi, citando fra gli altri nomi famigerati quali Argo Merchant, Exxon Valdez, Erika.
E ancora, delle disgrazie (spesso negligenze fatte passare per incidenti) di più d’un traghetto, primo fra tutti l’Estonia: una combo mortale di nave vecchia, noncurante e al contempo rigida gestione post-sovietica, difetti di costruzione ed egoismo. Centinaia di morti non dovrebbero costituire un racconto appassionante: ma da che mondo è mondo, tutti proviamo l’impulso di rallentare lungo il percorso per vedere con i nostri occhi quanto si sono fatti male gli estranei a bordo strada, anche quando ci sforziamo di non assecondarlo. Lo stesso accade qui.
Proprio come i treni, troppe navi vengono fatte correre nonostante la loro età da pensione sia passata da un pezzo. Eppure, non è mai questo solo dato a costituire il pericolo.

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Infine, scopriamo che si può osservare una nave giunta al tramonto della sua utilizzabilità anche dal lato opposto: quello dello smantellamento, e delle vite di chi, in grandissima parte nel terzo (quarto?) mondo con esso campa.
Ad esempio Alang, nell’India occidentale: protagonisti sono i demolitori che smontano come una colonia di formiche soldato una bestia di metallo dopo l’altra. A volte in un mese soltanto. Dell’indotto, diremmo noi, vivono poi i mercati di rottami, ma anche di mobili e oggetti recuperati dalle cabine abbandonate, motori, attrezzi, cavi e generatori; mentre i soli oli non recuperabili vengono buttati.

La cosa che rimane subito impressa, di Alang, è una specie di confusione visiva, che si dissolve dopo circa una settimana, quando il quadro comincia a prendere forma, e il procedimento che consente di distruggere una nave a mani nude acquista una sua logica, scomponendosi in una sequenza di attività semplici e brutali.

ship breaking

Tutto questo, chiaramente, in condizioni igieniche e di sicurezza pari a zero.
Le quali hanno ispirato, fra le altre, la campagna Greenpeace “una nave al giorno, un morto al giorno” ed un famoso fotoreportage di Sebastiao Salgado; che l’autore però contestualizza evocando, attraverso i protagonisti di quelle demolizioni, punti di vista forse meno felici ma più realisti ed articolati di quelli dei guardiani ambientali.

Ci vorrano sei mesi, in certi casi un anno. Alcuni operai rimarranno feriti, altri moriranno. E tutti saranno in qualche misura intossicati da veleni persino più pericolosi di quelli che respirerebbero per le strade dell’India. Ma sono titubanze che i poveri non possono permettersi.
[…]
“Chissà se gli ambientalisti preferirebbero morire di fame o di inquinamento”, mi aveva detto una volta in tono provocatorio [Jaysukh]. “Mi piacerebbe chiederglielo”.

“Ti risponderebbero che non si dovrebbe essere costretti a scegliere”.
“Stronzate”.
In un posto come Alang, probabilmente aveva ragione lui.
[…]
Ha senso parlare di ecologia globale? Su un certo piano naturalmente sì, e su quello stesso piano lo ha sostenere che esistono buoni argomenti scientifici a favore dell’esportazione di conoscenze e sensibilità occidentali.
Ma al tempo stesso si tratta di questioni spinose, rischiosissime dal punto di vista politico e forse anche fuorvianti.
Il mondo è un prodotto dell’uomo tanto quanto lo è della natura. E i suoi abitanti ne hanno un’esperienza talmente diversa che a volte ci si chiede se respirino la stessa aria. Il che è piuttosto difficile da accettare, a distanza. Troppo spesso crediamo di sapere di cosa ha bisogno l’altra parte del mondo, e queste nostre convinzioni sono talmente remote rispetto alla realtà quotidiana da risultare controproducenti, se non disumane.

Un relativismo sano, di matrice antropologica e non ideologica, che non ci deve impedire di riconoscere e desiderare il meglio possibile senza, tuttavia, pretendere di costruirlo sulle fragili basi di un’osservazione parziale.
Forte di questo sguardo interessato ma distaccato, l’autore può così concludere con un paragrafo poetico ma non ingenuo, lontano dal rinnovato rousseauismo dei terzomondisti romantici:

Dopo essermi di nuovo calato nella stiva, a volte scendevo fin nelle viscere della nave. Era un posto buio e strano, un’immensa caverna scavata dall’uomo in cui risuonavano le grida di avvertimento, i sibili della fiamma ossidrica, le scintille, i colpi di mazza, il fracasso dei rottami che cadevano a terra.
Per camminare si passava su certe assi molto strette impiastricciate di olio e a tratti ci si trovava sospesi sul vuoto. Cadere da lì avrebbe significato morire. Ma dopo la luce e il caldo di fuori, la frescura era piacevole.
Gli operai non mi vedevano neanche più. Spesso camminavano in fila, senza dire una parola, come fantasmi. Erano molto sporchi. E miserabili. Ma nei loro occhi non c’era lo sguardo spento, senza speranza, che avevo visto in quelli dei loro colleghi di Bahvnagar. Loro avevano uno scopo.
Verso poppa, dove la luce entrava dai fori di ventilazione andando a colpire le pareti annerite dal gasolio, l’enorme sala macchine aveva la bellezza di una cattedrale gotica.

Nelle puntate precedenti:
Sul mare .1: Avventura nell’artico, Arthur Conan Doyle
Sul mare .2: L’isola del tesoro, Robert Louis Stevenson
Sul mare .3: Il mare d’autunno
Sul mare .4: Il mare d’autunno (bis)
Sul mare .5: Long John Silver secondo Björn Larsson
Sul mare .6: Giona, Ismaele, Geppetto.
Sul mare .7: Le acque del Nord, Ian McGuire
> Sul mare .8: Vedi Venezia e poi vivi
> Sul mare .9: La cucina della filibusta, Melani LeBris

 

32 pensieri riguardo “Sul mare .10: Terrore dal mare, William Langewiesche

    1. qualcosina c’è, ma ciò che ho incontrato finora io verte soprattutto sulle suddette “bagnarole” 😉
      E poi mi viene in mente il (buon) film di cui parla Lucy più sotto, Captain Phillips.

      A me interessano soprattutto gli “incidenti”, nei quali figurerebbe di diritto anche quello della Concordia, che però al momento della pubblicazione era ancora di là da venire.

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  1. Molto bello. Molti spunti. Non mi azzardo a farne anche io, adesso che mi sono appena svegliato dopo un sonno pesante sul divano, dopo aver mangiato troppo a pranzo, dopo aver veduto un brutto film online. Dopo essermi appena connesso, anche se sembra che non sia così, solo per scoprire che avevi appena pubblicato un articolo nuovo.
    Al mare noi ci andremo d’inverno.
    Per ora beccati questa:

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        1. Forse, sì, anzi probabilmente… ma sulla spiaggia col freddo, in fondo, quante persone ci saranno? A Cesenatico e dintorni passeggiavano qualcosa come una decina di persone a botta, quasi sempre sole, in ottobre. E poi senza gli stabilimenti attivi ci si distanzia in un amen 😉 (Oddio, quand’è che chiudono di solito gli stabilimenti da voi?).

          Eh già, la Achille Lauro!
          La dura vita dei crocieristi, ahi…
          Metto in cantiere anche quella.

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        2. In realtà quando parlo di “mascherine” penso sopratutto a quando si è obbligati a metterle sui mezzi pubblici. E’ quello che mi infastidisce.
          Per la spiaggia non ce ne frega niente dello stabilimento perché andiamo a una spiaggia libera, o stiamo lungo il mare, sulle strade che lo costeggiano. 😉

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        3. Eh, cacchio, effettivamente…
          … potremmo mettere delle lenti a contatto rosse e graffiarci un po’ qua e là braccia e gambe, così la gente se ne sta a distanza senza che noi si debba far nulla.
          Comunque, ci penseremo, cheri.
          Prima o poi si fa tutto 🙂

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        4. Prima o poi dovrò pur far un qualche atto di sana disobbedienza civile per dimostrare che certe categorie le mascherine non le devono mettere! Ma temo per te. Quando scoprono che sei bresciana proveranno a “infinocchiarti” (eufemismo)! 😀

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        5. Funzionerebbe se tutti gli altri le indossassero, ma così non è… e se così non è, anche se ti credo quando mi dici che questo tipo di malattie non ti tange, io non mi fiderei lo stesso.
          E quanto a me, proprio come su strada, sono gli altri che devono aver paura. Sono come Leonida in 300: al minimo segnale di ostilità, scateno il malghese che ho dentro!

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        6. Volevo solo ribadire che chi ha problemi respiratori non deve essere obbligato a portarle, fermo restando la distanza sociale e i buonsenso, da applicarsi sempre.
          Non dubito delle tue qualità antagoniste. 🙂

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        7. Tesoro… in un paese in cui i massaggi linfodrenanti per gli ex pazienti oncologici sono considerati trattamento estetico e da pagare, in cui i virologi stessi han ripetuto in tv per mesi che la mascherina chirurgica era sufficiente per proteggersi e che la ffp2 aveva senso solo in ambito professionale, in cui le tabelle per la definizione delle invalidità sono ferme a decenni fa…
          … io so bene cosa sarebbe giusto, ma in Italia se fai la cosa giusta prima ti becchi una multa e poi finisci in ospedale perché una massa di burini t’ha alitato addosso. E la multa la becchi tu ma non loro, perché quelli grossi si fa finta di non vederli, e si sta addosso invece ai pulcini piccoli e neri e arruffati.
          Perciò purtroppo tocca coltivare il malghese. Ce n’è uno in ognuno di noi! ^______________^

          (Comunque il video che volevo postare era un altro, questo:

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        8. E quando mai?
          E poi, di solito basta la tonalità cavernosa a far intendere il messaggio al nemico 😁
          Ma sai che Battiato barbuto ha un certo non so che? Cambia completamente faccia!

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