Sono un mito .11: Paroline

Mia madre chiamava così, “le paroline”, i sottotitoli per non udenti alla televisione.
Tralascio le mie usuali (sacrosante) lamentele a proposito della qualità dei sottotitoli Rai – ne avevo parlato anche col presidente della sezione ENS locale, il quale mi confermò che stavano lottando per ottenere un servizio migliore da anni, senza risultato.

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Ma che, sei sordo? Fatti l’Amplifon!

I sottotitoli, insieme agli apparecchi acustici (rinominati e sostantivati, insieme ai sordi stessi, “Amplifon”), credo siano i due più noti emblemi della sordità, i primi concetti associati alla stessa che salgono alla mente.
La verità però è che non per tutti, non sempre, sono sufficienti delle protesi auricolari.
Per esempio all’inizio per mia madre andavano benissimo, ma col passare degli anni il deficit si è aggravato sinché, semplicemente, lo strumento non poteva amplificare più di quanto già facesse – e pure di cellule ciliate non ve n’erano più tante.
Tant’è vero che negli ultimi dieci anni almeno, abbiamo dovuto abbandonare il modello più sofisticato – e parzialmente a pagamento – per tornare a quello base, interamente passato dalla ASL ma che di fatto svolgeva unicamente un ruolo di “non si sa mai”. Alla fine, mia madre ha smesso di indossare pure quello: la sua capacità di raccogliere suoni era alquanto aleatoria; alle volte percepiva suoni banalissimi, specie se di tono grave, altre le pareva di sentire la voce al telefono, cioè del mio interlocutore sul fisso! (e non è detto che fosse una compensazione psichica: è capitato che mi chiedesse se stavo telefonando senza avermi visto farlo, restando a pochi metri di distanza in cucina…). Ma, per lo più, non era in grado di avvertire un clacson a doppia tonalità suonatole in faccia, o le sirene di ambulanze ed auto della polizia, o ancora di un’esplosione – tutti suoni riprodotti al massimo volume, da grandi casse poste ad un metro da lei, in ambulatorio: un test elementare e non risolutivo in ipoacusie lievi, ma decisivo in quelle più gravi.
Inoltre, la sordità causata dalla MELAS è di origine corticale e non sensoriale, vale a dire che dipende da un disturbo nervoso centrale e non soltanto dall’efficienza dell’orecchio e dai nervi periferici che conducono il suono: potenzialmente, l’orecchio potrebbe anche non aver danni, ma l’udito risultare comunque compromesso.
Nel caso in specie si parla in genere di ipo- / anacusia bilaterale corticale profonda.

Mito

Spesso, poi, sia chi porta un apparecchio acustico sia chi utilizza una lingua dei segni abbina ad essi la lettura labiale.
Ma, di nuovo, mia madre seppur come molti intuisse alcune parole, non sapeva propriamente “leggere” una conversazione solo osservando le bocche altrui in movimento…
… al di là del ricordo e dell’ambito personale, comunque, colgo l’occasione per rilanciarvi un articolo de Il Post – che sto scoprendo essere un sito serio, informato, approfondito – a proposito di sordità e mascherine: io, per esempio, pur avendo presente il problema non sapevo esistessero tentativi di mascherine (o meglio visiere facciali) trasparenti. E a dir la verità le trovo anche più efficaci di quanto venga stimato.

Ségnatelo! / Segnàtelo!

L’altra grande opportunità per le persone sorde di comunicare, la vera alternativa al mondo dei normodotati (o persino, se vogliamo, dell’audismo: anche se questo concetto è a mio avviso alquanto controverso), è naturalmente l’utilizzo di una lingua dei segni.
Dico “una” lingua perché, oltre ad esistere più lingue nazionali, in diversi paesi (non in tutti, ma l’Italia è uno di questi) la lingua nazionale ufficiale viene usata praticamente solo in contesti istituzionali e nei corsi appositi; ma, di fatto, le vere lingue segnate sono locali, come i dialetti. Alcuni segni possono coincidere, e c’è una forte capacità in chi sordo ci è nato di intuire il significato di alcuni segni usati in altre città (un po’ come se la comunanza di una lingua altra rendesse più facile distinguere costruzioni verbali differenti ma affini rispetto a quelle xenie). Ma di base un sordo segnante bresciano comunica in una lingua diversa da quella di un sordo segnante messinese.

lingua italiana segni

Ad ogni modo, tanto per cambiare, mia madre non aveva la cultura, la capacità cognitiva (limitata dalla malattia ma, comunque, rilevante nell’apprendimento di una lingua nuova e tanto distante dalla propria, specie in età adulta: ha cominciato a manifestare l’ipoacusia intorno ai 40 anni, persino più tardi di me!), né un interesse personale abbastanza forte da motivarla a provarci – quest’ultima cosa anche perché non ha mai avuto una consapevolezza piena e profonda della propria situazione.
Io, invece, vorrei davvero – se non imparare la LIS – almeno appropriarmi per tempo di più segni possibile, e della grammatica sottostante, che finora ho solo occhieggiato sui manuali.
Perché ne avrò bisogno.
Ma anche perché la trovo una lingua bellissima ♡

Cocle a chi?!

Ma anche una lingua bellissima come quella (in generale) dei segni ha le sue spine e le sue croci.
In questo caso, mi riferisco all’eterna lotta per la preminenza delle lingue dei segni rispetto all’oralismo, una tendenza (non necessariamente sbagliata, errata e pregiudizievole oltre che giudicante) che privilegia, per i sordi nati, l’acquisizione di seppur limitate capacità di lettura, scrittura e soprattutto verbalizzazione della lingua italiana standard.
Tale indirizzo può prevedere, ad esempio, da parte dei genitori di un bambino sordo, la scelta di consentirgli non solo l’apprendimento della lingua dei segni ma anche in contemporanea l’acquisizione di un udito imperfetto, ma molto vicino alla realtà uditiva di un normodotato, attraverso l’impianto cocleare. E’ il caso di questa famiglia.
Ma chi si ribella a questa tendenza – spesso, secondo me, con altrettanta dose di pregiudizio – paventa la volontà di recuperare il “senso perduto” come una normalizzazione forzata, nonché come una minaccia per la cultura sorda.
(Sì, esiste una cultura sorda, espressione che non si riferisce unicamente a prodotti artistici e sociali creati da persone sorde, ma anche e principalmente al loro sentirsi comunità, con abitudini, preferenze, maniere di socializzare ed appunto orizzonti comunicativi differenti.
La sordità è vista in questo spirito non come un handicap ma come una normale variante della fisiologia umana; e le lingue dei segni non come un rozzo espediente compensativo, ma come una lingua qualsiasi di pari dignità rispetto alle lingue verbali. E va detto, quantomeno, che rozze le lingue dei segni proprio non sono!).

impianto-cocleare

Ora, senza entrare troppo nel merito, mi tocca constatare che anche su questo fronte il dottorame mi ha assestato un duro colpo: per farla breve, mia madre pur con tutti i succitati limiti avrebbe avuto, tra i 40 ed i 50, la possibilità tecnica, l’opportunità ponderata e la capacità di implementare il proprio udito in discesa libera con un impianto cocleare e con la successiva, impegnativa ma al tempo ancora pensabile, rieducazione logopedica.
Non solo: ne avrebbe avuto la necessità; e rappresentava un soggetto decisamente adatto a questo tipo di operazione (complessivamente parlando, non solo con riferimento all’intervento chirurgico che è comunque da valutare di momento in momento).
Ebbene, così com’è stato per la penna di glucagone ad azione rapida che, in ambito diabetologico, avrebbe evitato a lei due crisi ipoglicemiche gravi ed a me due spaventi orrendi; allo stesso modo pensate forse che un solo medico, in trent’anni di follow-up audiologico (e neurologico dei familiari prima che suo), abbia mai fatto riferimento al cocleare e l’abbia se non consigliato, almeno – com’era doveroso – ipotizzato, fatto presente, indicato come ideale per il suo recupero?
Che domande! Ovviamente, NO.
Ho scoperto solo due anni prima, due fottutissimi anni prima che morisse – e quando in ogni caso era troppo tardi per intervenire, per la sua situazione particolare – che questa possibilità non solo esisteva ma che lei sarebbe stata, a tempo debito, una candidata perfetta. Devo aggiungere altro?

A mali estremi

Ricapitolando: negli ultimi otto anni di vita di mia madre, duranti i quali la gestione della sua salute era a mio carico, non disponevo per comunicare con lei – ormai completamente sorda, e quando dico completamente lo intendo alla lettera – né di un set di segni né di un set di gesti codificati minimo, né della possibilità di consentirle la lettura delle labbra, né di un mezzo tecnologico avanzato (cocleare, un cellulare che lei sapesse utilizzare), né insomma di alcun “ponte” tra me e lei che non limitasse la conversazioni e in genere lo scambio di informazioni anche elementari al minimo sindacale, e tollerabile da parte sua.
Come ho fatto a sopravvivere, allora?
E’ presto detto.

A parte attuare delle basilari accortezze, come queste indicate dall’ENS, me la sono cavata (non sempre egregiamente) così:

  • scrivendo le cose più complesse o importanti su un quaderno.
    Nel nostro salotto ha sempre stazionato un quaderno (ne avevo e ne ho ancora un mucchio avanzati dai corsi universitari e persino dalle superiori), sul quale cercavo di mettere in fila, in ordine ed in una sequenza che fosse al tempo stesso abbastanza chiara ed abbastanza breve le nostre comunicazioni “di servizio”.
    Ma anche, certo, attestazioni di affetto, spiegazioni e precisazioni post-litigio, pecore e gatti e cuori disegnati qua e là…
    … può sembrare risolutivo, ma se vi sembra sia così è perché non avete mai provato ad interagire ogni singolo giorno, per quasi tutte le cose che avete da dire e chiedere, in questo modo: è lento. E’ laborioso. E’ persino faticoso a livello fisico!;
    .
  • utilizzando, per comunicazioni più flash ed immediate – come ad esempio la parola serale della Ghigliottina dell’Eredità, che seguivamo assidue – dei cartoncini da me appositamente ritagliati che riportavano le lettere dell’alfabeto, in triplice copia ciascuna, più i segni di interpunzione;

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  • in occasioni simili, ma quando ci trovavamo fuori di casa, scrivendo singole parole o frasi brevissime sul memo del cellulare, oppure – dato che pure così c’era il rischio che senza occhiali non le vedesse… – in una bozza di messaggio, del quale potevo ingrandire il carattere;
    .
  • infine, sfruttando (per quanto possibile, non comprendendo un’infinità di lemmi e non essendo codificata) la componente mimica della lingua, ossia i gesti.
    Che sono appunto gesti, non segni: come l’indice fatto girare più volte a destra e sinistra appoggiato alla guancia per dire che un piatto è buono, lo stesso indice fatto ruotare a lato della tempia che dire che uno è un po’ matto, oppure anche un bel dito medio.
    La grande differenza è che i gesti sono come detto condivisi dai parlanti una data lingua in numero limitato, non sono codificati né riportati in un dizionario che ne certifica e fissa le forme, e dunque – fondamentale – non hanno una grammatica né una sintassi. Tutte cose invece valide per le lingue dei segni.
    Di conseguenza, non sempre i miei tentativi di trasmettere un messaggio a gesti andavano in porto.

Chiudo qui questo sintetico excursus nei possibili approcci alla sordità; riservandomi di approfondire questo o quel tema in futuri post: e voi, se avete curiosità o richieste, fatevi avanti. Non ho risposte per tutto né vaste conoscenze, ma posso offrire la mia esperienza.

Nelle puntate precedenti:
Sono un mito .0: La medicina narrativa
Sono un mito .1: Please meet mitochondria
Sono un mito .2: t-RNA-leu-A3243G
Sono un mito .3: Dep 2 Death
Sono un mito .4: Un epistolario
Sono un mito .5: Come bambini
Sono un mito .6: Libera
Sono un mito .7: Attrice in erba
Sono un mito .8: Lo stato dell’arte
> Sono un mito .9: Beata te!
> Sono un mito .10: Una rinascita

24 pensieri riguardo “Sono un mito .11: Paroline

  1. Pensieri sparsi finita la lettura. Interessante ed emozionante. Confermi alcune idee che già coltivavo e offri nuovi spunti e conoscenze. Ho studiato un po’ i gesti per un paragrafo di una storia che sto scrivendo e le tue parole (insieme allo schema che hai inserito) sono utili. Ho sfrutttato per anni i labili per lavoro e sono il miglior ausilio, per me, quando qualcuno non ha una pronuncia pulita: con la mascherina é un disastro, fatico a capire le persone o comunque ho perso il gusto della conversazione. Ho sempre pensato di voler imparare il linguaggio dei segni. Sei commovente, il ricordo di te e tua mamma davanti alla Ghigliottina mi accompagnerà a lungo, oggi. Mio papà sta perdendo la vista e stiamo cercando soluzioni per aiutarlo. Anche per lui sarebbe bastata più sollecitudine, da parte sua e dei medici ma preferisco non pensarci. Scrivi benissimo.

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    1. Perdona il ritardo, mi sono alzata ora…
      Ti ringrazio moltissimo. Ed il superlativo ci sta tutto, perché questo post aspettava in bozza (una bozza rachitica) da parecchio tempo. Non il più doloroso da scrivere ma, come dici tu, il più commovente.
      I ricordi, i dettagli sarebbero infiniti, ma ho voluto almeno fissare una buona volta cosa significa non solo avere un deficit grave, ma non avere modo di vincerlo: altro che diversabilità…!

      Mi sembra di capire che abbia un problema uditivo anche tu. Sbaglio?
      Capisco quel che dici a proposito di perdere il gusto della conversazione (e, di nuovo, penso a mia mamma che negli anni, un po’ per carattere ma anche molto per questo motivo, si è isolata sempre di più). Io ho un deficit iniziale, assai leggero, eppure in certi contesti affollati, o quando le parole perse per strada si fanno troppo numerose, tendo già a sviare l’attenzione da me e starmene da parte, se non altrove.
      Pregherò per voi e per tuo padre in particolare ♡

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      1. È proprio come dici, il nucleo è proprio l’impotenza di fronte al deficit grave. Da quando è successo di mio papà è la prima volta che ne parlo o ne scrivo, credo sia stato un bene leggerti. No, io non ho un deficit o almeno non accertato, ma per lavoro (adattamento dialoghi) ho imparato a seguire i labiali e proprio grazie alle mascherine ho scoperto che quando parlo con le persone mi affido più alla vista che all’udito, quindi da quando abbiamo la museruola fatico il doppio e spesso mi arrendo. In effetti temo di non avere un udito eccezionale, me ne sto rendendo conto proprio in questo periodo. Mio papà non distingue più i volti, ma ha cercato di imprimerli a fondo nella memoria. Immagino che anche tua mamma abbia avuto modo di fissare le voci e la musica nella sua mente. E certe immagini, certi suoni non spariscono più. Lo vedo coi miei figli: suonano anche quando non hanno i loro strumenti, “ascoltano” e riproducono gli spartiti anche senza averli mai sentiti. La nostra mente non permette che vengano cancellati anni di rumori e colori acquisiti, per fortuna. Anche se non è la stessa cosa, anche se ti do ragione quando sminuisci la diversabilità. Continuerò a seguire quello che scrivi. ❤️

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        1. Non poter condividere queste cose, o per lo meno sapere che raramente si verrà capiti e non sminuiti o consolati impropriamente, è la parte che per me è stata più difficile da reggere.
          Sì, i volti e le musiche davvero importanti lasciano la loro impronta, e riaffiorano, magari talvolta a tradimento, quando non li aspettavi…
          … dimmi di più, se ti va: adatti i dialoghi per il cinema / per la tv? Proprio per i sottotitoli, magari, o da lingua straniera? Mi interessa 🙂
          Intanto, benvenuta ^______________^

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        2. Vero, è il motivo per cui non ne parlo. Ho smesso di lavorare da qualche anno, adattavo dialoghi per la TV (ho cominciato coi cartoni animati giapponesi 😊), ma anche sottotitoli e servizi diversi per audiovisivi ed editoria. Ma adesso sono ferma per scelta (o necessità 😉). E continuo a scrivere, anche se adesso solo per passione. Sbircio nel tuo blog per sapere di te. 😊 E… grazieee! ^________^

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  2. Andando all’università ho avuto modo di conoscere persone nate sorde e mi hanno spiegato (con molta calma visto che faccio fatica e leggere il linguaggio dei segni) più o meno i problemi che hai elencato te riguardo ai sottotitoli televisivi e il modo con cui condividono queste cose con i sordi. Un problema enorme poi riguarda gli accenti. Purtroppo tendiamo a non utilizzarli ma a volte ci sono parole con degli accenti diversi che possono metterli in difficoltà a volte (tipo bótte e bòtte). Seguendo di tanto in tanto anche le lezioni di Scienze della formazione (faccio Beni Culturali ma a volte mi incuriosivo e volevo vedere le lezioni di Scienze della formazione) mettevano alla luce questo problema soprattutto riferendosi ai più piccoli e il metodo che hai utilizzato tu è stato molto intelligente e anche alcuni insegnanti lo hanno utilizzato per aiutare i sordi a capire meglio certi concetti.

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        1. Sì. A me è sempre parso un passaggio obbligato.
          Per inciso, quei quaderni li ho conservati tutti… sono come ricordi di conversazioni, ma insolitamente cristallizzati. Come una foto o un video, ma fatti a qualcosa che normalmente non lascia traccia.

          Oltrepassa il tuo stesso passo
          Conduciti oltre la coltre
          del tempo e del senso
          Supera la superficie delle cose
          Vedi cosa c’è sotto
          senza ignorare
          gli anfratti superiori e laterali

          Poi
          tieniti da parte
          e scrivi le tue per-versi-tà
          solo se ciò che hai da dire
          risuona meglio del silenzio

          Infine
          ripiegati su te stesso
          butta le tue parole
          in un cestino abbastanza capiente
          e controlla se resta spazio
          per la tua carne
          le tue ossa
          e i tuoi pensieri

          [ https://aitanblog.wordpress.com/2020/04/15/witt/ ]

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        2. C’è anche un altro senso che può venire in aiuto, e che però non ho citato perché non consente una vera e propria comunicazione “di linguaggio”: il tatto.
          Si può creare un baratro tra un sordo ed il suo familiare (soprattutto) e/o caregiver udente, ed il tatto va a ripristinare un contatto emotivo che è fondamentale quanto la trasmissione di un messaggio.

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        3. Questo è un tipo di contatto che può funzionare solo con persone che ti sono vicine apputno come amici o parenti e si può applicare solo nell’ambito privato. Una cosa che personalmente apprezzo molto perché, come hai ben specificato, si ha a che fare con un contatto emotivo e sociale stretto e indispensabile.

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        4. A seconda del rapporto che si ha – anche quello di cura o di accompagnamento lo consente, ma certo molto meno… – e del livello di intimità, sì.
          A volte anche solo mettere una mano sulla spalla per incoraggiare, oppure tamburellare un motivetto su una superficie infondono una serenità e un sentimento di vicinanza… e se questo vale già per un normodotato, quanta differenza può fare per un disabile?

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  3. Direi che te la sei cavata egregiamente mettendoci anche la tua intelligenza, e un’infinita quantità di amore, determinazione e pazienza che immagino siano stati messi anche a dura prova. Che rabbia per i dottori che avrebbero potuto rendervi la vita più facile 🤐

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