Ho un rifiuto immediato ed esplosivo per una serie di cose.
Dopo anni in ballo, sia come familiare, che come paziente, che come caregiver, il pensiero della malattia mi è connaturato; ma al tempo stesso dovermene occupare più dello stretto necessario, ora che anche mia madre è morta e sono libera almeno dal lavoro di accudimento, mi genera nausea, irritazione, una reazione mentale pari ad un violento sfogo cutaneo.
Sono prontissima a parlarne anche per ore, quando però lo stabilisco io e non sono in un momento in cui mi sta succedendo qualcosa (sia pure solo un banale dolore muscolare, una contrazione, un deficit di sensibilità…).
Eppure, non tollero tante cose.
Gli spot di Telethon, per esempio. Sì, quei merdosissimi spot, per giunta lunghi, in cui raccontano la storia del bambino malato di turno e sollecitano una sacrosanta donazione.
Tutto giusto, tutto santo e fondamentale per consentire la ricerca, ma a me fa schifo e mi fa ribrezzo e odio, letteralmente odio, avere davanti al muso ogni fottuto giorno, più volte, su ogni rete perché ormai l’intero broadcasting nazionale ne è colonizzato peggio che con Save the Children, bambini che hanno diritto di essere visti e diritto di vivere quanto gli altri – quelli senza PEG, senza flebo, che ci vedono e sentono, che camminano e non sbavano – ma che, scusate se insisto, penso, dopo un’esistenza trascorsa attorniata da queste belle disfunzioni, di avere personalmente anche il diritto a mandare a fanculo (con tutti gli auguri di pronta cura ed attenzione, ma affanculo uguale).
Ho scritto ieri a proposito della gestione della sordità di mia madre.
Che, tra parentesi, rappresenta solo uno dei macro-problemi che aveva.
Ho poi ripreso in mano, in uno slancio che la lucidità altrimenti mi avrebbe impedito, i quaderni coi quali appunto comunicavo, in prevalenza, con lei. Dopo un anno e mezzo da che non ho più aggiunto alcun messaggio su quelle pagine, ancora non avevo trovato la forza o la motivazione per rileggerle.
E forse per questa stessa ragione, la notte di luglio in cui – stavo dall’Arrotino – ho avuto una lunga mialgia e un episodio di “sindrome delle gambe senza riposo” (restless legs syndrome, una novità 2020), dopo lo sforzo minimo necessario per inquadrare la situazione e notificare a lui che non avevo nulla di grave o che richiedesse un intervento, ho come abbassato una saracinesca sull’eventualità di ritornarci su.
Anche per pochi secondi – anche per i minuti in cui lui ha cominciato a sciorinare una serie di ipotesi e di considerazioni che, pur nella massima buona fede e nel tentativo di darmi una mano, mi hanno invece affossato e fatto disperare.
Perché ormai qualunque banalità o bazzecola, per la mia anima sfibrata, è TROPPO.
Dopo 32 anni di questa vita basta un niente, un soffio, quando mi sono già pronunciata al riguardo, per farmi male: perché sono come una persona che sia arrivata all’indigestione forzata e si trovi a dover ingoiare ancora. Un solo chicco d’uva, anzi, che dico: un acino d’uvetta passa. Ma non importa, quel singolo acino (ogni singolo acino) è veleno, è la morte. È di troppo, malvoluto, non richiesto e intollerabile.
Certo non soltanto, ma quella notte forse era in atto questo meccanismo, ormai così consolidato da funzionare persino senza avvisarne la mia coscienza.
Sfoglio i quaderni ed i più contenuti blocco-note per le uscite, e la vedo in tutta la sua ampiezza e magnificenza: la sofferenza.
Tutte le pagine sono intrise d’affetto e premura, d’amore profondo ma anche di disperazione folle, della voglia di farla finita, delle ceneri di un mondo che non è potuto esistere perché è stato frantumato e disperso al vento dalla malattia.
E toh, guarda, sto piangendo mentre lo scrivo. Non finirò mai di pianger fuori tutto quel male. Arriverà il momento anche per me, e quando sarò sorda – che nessuno s’azzardi a contestarlo – VOGLIO che sia ugualmente rispettato il mio bisogno di tagliar corto, anche nella crisi, anche nei frangenti più complessi (che non devono diventare complicati).
Voglio poter dire: è un peccato, ma preferisco rinunciare. A sforzarmi di ascoltare, ad interagire, a stare in compagnia se le condizioni non sono quelle limitatissime, ma perfette, che io stessa scelgo come adatte.
Tagliare. Chiudere. Lasciar andare.
E’ questo che mi fa bene. E la misura del mio benessere sono io, non c’è alcun protocollo o scoperta o sogno da educande sanitarie che la possa superare.
Stefano mi ha raccontato qualcosa che mi ricorda questi discorsi. Quando ancora non era sposato con la futura moglie e la frequentava, essa, per un qualche suo prodigio, era in grado di capire in anticipo quando a lui stava per venire una crisi glicemica (credo si dica così). La cosa lo infastidiva moltissimo, anche se avrebbe dovuto esserne contento. Nel suo caso perché lo faceva sentire debole…
Quegli spot sui bambini bisognosi sono criminali perché usano quei bambini per ottenere denaro, e non per risolvere alla radice il problema. Cioè, a quelle associazioni interessa solo che gli si donino soldi. Loro non mirano a risolvere davvero il problema. Se così fosse per esempio dovrebbero dire qualcosa che omettono sempre, e cioè che è un’indecenza che esistano ancora certi problemi, e che la colpa è di chi avrebbe dovuto risolverli, e non l’ha fatto, perché non gliene frega nulla. Se fossero davvero oneste quelle associazioni farebbero la “guerra” ai governi del mondo.
Amore, adesso credo di aver capito meglio tutto il discorso. Scusami se non l’ho fatto prima. Niente e nessuno ci dividerà mai.
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L’esempio calza.
E sì, se i governi imponessero una legislazione svantaggiosa per quelle case farmaceutiche che non si curano delle malattie “orfane” perché non remunerative (vale a dire il 99,5%), dall’oggi al domani la ricerca farebbe un balzo in avanti pazzesco.
Punto…
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In questo articolo sei riuscita a spiegare molto bene la sofferenza e il dolore causati dalla malattia in un modo che io non sarei mai capace di fare. Non riuscirei mai ad aprirmi come hai fatto tu, non ne sono capace e ammetto di essermi veramente commosso a leggere il tuo articolo.
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Ad un certo punto ho dovuto farlo – l’alternativa era implodere e spegnermi.
Pensa che nel 2009, durante una lezione del corso O.S.S., ho chiesto di uscire e son scoppiata a piangere in corridoio. Era la lezione di psichiatria, si parlava del Trattamento Sanitario Obbligatorio e, nonostante ancora facessi la dura e razionalizzassi a cento ogni cosa che riguardava mio fratello, alla fine non ho retto al ricordo del suo TSO.
E’ stata, credo, la prima volta che lo raccontavo, e che in generale “confessavo” di essere vulnerabile rispetto a tutto quello che aveva vissuto. Che mi toccava nel profondo, anche se “io ero sana” (e neppure questo era vero).
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Non c’è nulla di male nel mostrare le proprie debolezze. Dobbiamo farlo, dobbiamo sfogarci oppure crolliamo. Non si è deboli se si piange o si esplode in quel modo. Hai sopportato veramente tanto.
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No, è vero.
Credo che fosse un modo per proteggermi, perché fino ad allora (avevo 24 anni, e tutto è iniziato che ne avevo 9) a parte mio padre non c’era nessuno che potesse capire cosa si provava. Insomma eravamo soli: se avessi cercato comprensione e una compensazione all’esterno della mia famiglia, avrei fallito e sofferto addirittura di più.
Perciò mi sono chiusa e ho tenuto duro.
Arrivata al 2008 la tensione si era in qualche misura allentata, ed anche la depressione è andata lentamente in remissione.
Grazie per i commenti, Butch 😊
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(Il TSO di mio fratello è stato due anni prima, nel 2007. A fine 2008 è morto, quindi a parte i ricordi in quel momento ero ancora in pieno lutto).
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❤️❤️❤️
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♡
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Penso che il diritto di rinunciare, lasciare andare, dire “basta non ne posso più”, sia un diritto sacrosanto. Ognuno sa quanto pesa il proprio dolore e siamo soli quando dobbiamo gestirlo nel profondo di noi stessi per un tempo che sembra sempre infinito. È sicuramente difficile comprendere per le persone vicine, ma ha molto senso il tuo desiderio. Ti mando un abbraccio forte e complimenti per le tue riflessioni ♥️
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quasi quasi mi stampo il tuo commento… dritto al punto!
Penso e spero che mia mamma abbia inteso quanto impegno ci ho messo, e con quali sentimenti. In ogni caso, adesso lo sa…
… mi viene in mente spesso quant’era contenta di tornare dopo la visita domenicale alla sorella, d’inverno, e trovare il piagiama caldo sopra il calorifero ^____________^
Più che dall’infinità di colloqui e visite mediche, sapeva da queste piccole cose che non lo facevo per renderle la vita difficile, ma al contrario perché erano davvero necessarie. Come un pigiama caldo.
Ti ri-abbraccio 🙂
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Tua mamma lo ha capito di sicuro quanto impegno ci hai messo! Ed è stata davvero fortunata ad averti vicina.. 😊👍
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♡
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