Siamo in una dittatura? Hollywood dimostra che è così.

So che per moltissimi (saranno la maggioranza? Il dubbio è legittimo…) non esiste alcuna stortura nel politicamente corretto, figuriamoci una discriminazione che ha come oggetto non le minoranze (etniche, di orientamento sessuale ed identità di genere, politiche, ecc.; alcune delle quali, ancorché utilmente sul piano culturale, sono già adesso sovra-rappresentate) ma le maggioranze, e men che meno un’ideologia (qui: sistema di pensiero coercitivo che nega la libertà) progressista, antirazzista, antifascista, dedita a creare omofobia e sessismo anche e soprattutto laddove non ci sono e ad esercitare un potere politico e sociale che va ben oltre quello di un legittimo gruppo di pressione.
Insomma, so che posso distinguere (dunque discriminare) nettamente chi comanda e chi subisce, secondo le posizioni e le reazioni, quando si parla di dittatura del pensiero unico.
Ecco: condivido questo post di Ottonieri (da Hic Rhodus), del quale non sottoscrivo unicamente quanto dice su Trump, a proposito delle recentissime assurde ed illiberali imposizioni dell’Academy ai film in gara; per ribadire che non considero affatto esagerate, iperboliche o retrograde / oscurantiste / nate dall’odio tali espressioni. Io non le uso retoricamente, bensì le intendo letteralmente: sì, viviamo sotto una dittatura. Auguri.

No, nonostante l’immagine che ho scelto per l’apertura di questo articolo, non sto per proporvi un excursus nel cinema ideologico dell’Unione Sovietica. Il totalitarismo di cui parlo si è anzi gloriosamente insediato nella roccaforte dello show business cinematografico, quella Hollywood che sta evidentemente per rivivere i fasti del maccartismo, sia pure con tutt’altre bandiere a sventolare dai pennoni degli studios.

La ragione per cui sto scomodando paragoni storici così infausti è un comunicato dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, ossia l’organizzazione che ogni anno assegna gli Oscar ai film più belli e agli attori più bravi. O forse assegnava, dovrei dire? Vediamo di che si tratta.
L’Academy ha stabilito che dal 2024 potrà essere scelto come miglior film dell’anno solo uno che soddisfi almeno due dei seguenti quattro criteri (che sintetizzo per ragioni di spazio):
1) Avere tra i protagonisti principali del film un attore o attrice appartenente a un “gruppo etnico sottorappresentato”, o avere come tema centrale del film una vicenda centrata su donne, persone LGBTQ+, o dei suddetti gruppi etnici, o disabili (i sordi sembra siano un caso particolare).
2) Avere tra i capi del team creativo e/o tra il personale tecnico un’appropriata presenza di donne, gruppi etnici sottorappresentati, LGBTQ+, disabili, ecc.
3) Avere nella casa di distribuzione o di produzione un’appropriata presenza ecc. ecc.
4) Avere tra i capi delle attività di promozione e marketing un’appropriata presenza ecc. ecc.

Ora, francamente che tra il personale della casa di produzione di un film a cui sto assistendo ci sia o non ci sia un hawaiano duro d’orecchi, o un transgender nordafricano è cosa che, confesso, non mi è mai interessata e continuerà a non interessarmi. Se per continuare a lavorare un direttore della fotografia comincerà a portarsi dietro un cornetto acustico, o un direttore marketing manderà due dozzine di rose rosse al regista, pazienza, problemi loro.

Quello che è terrificante, invece, è il primo degli standard stabiliti dall’Academy (e, incidentalmente, il fatto che li chiamino standard è assolutamente sinistro): in pratica, un film se non parla di “questo” e non ha tra i protagonisti “quello” non può essere premiato. E la cosa fantastica, spettacolare nella sua colossale ipocrisia, è che questa dichiarazione di totalitarismo culturale è fatta in nome dell’inclusività.

Faccio un inciso: personalmente, sono ormai convinto che ogni volta che qualcuno invoca la parola inclusivo lo fa per imporre una discriminazione. Non c’è cosa più divisiva dell’inclusività della correttezza politica, un po’ come era democratica la Germania Est o come era Santa l’Inquisizione spagnola. Qualsiasi buona intenzione potesse animare gli iniziatori dell’utilizzo di questa parola è ormai stata sovvertita per renderla invece un’arma contundente contro chi non è uniformato al pensiero unico della political correctness. Fateci caso.

Uscendo dall’inciso, in pratica l’Academy, con un atto burocratico (e anche questo è un tratto ricorrente del totalitarismo), dichiara che sono inclusive solo le opere artistiche che rispondono a un determinato standard, e che tutte le altre non meritano di essere prese in considerazione.
Non vale neanche la pena di stare a discutere se davvero, ad esempio, le storie femminili o gli attori afroamericani siano “sottorappresentati” nei film delle grandi case di produzione; una direttiva di questo tipo è esattamente equivalente alla dottrina sovietica che imponeva determinati temi e determinati protagonisti ai cineasti progressisti.
Naturalmente, le autorità sovietiche (o il maccartismo sul versante opposto della guerra fredda) imponevano la loro ideologia con la forza dell’autorità politica, ma Hollywood può fare la stessa cosa con le armi che più si addicono a un’industria capitalistica, ossia controllando il “bollino” che garantisce a un film di diventare un successo globale. Quale major investirà in un film non inclusivo e che non sia conforme agli standard scelti per gli Oscar?

Come dicevo, mi sembra inutile mettersi ad analizzare uno per uno gli standard, ad esempio per chiedersi quali dei film selezionati per gli Oscar negli ultimi anni sarebbero conformi allo standard n. 1 (Piccole Donne Parasite sì, Le Mans ’66 no?); la questione è indipendente dal contenuto effettivo dei modelli narrativi imposti dall’ideologia dell’inclusività.
Allo stesso modo, non entrerei in possibili escamotage che si potrebbero usare per aggirarli: non è questo il punto. Il punto è che quando un’istituzione decide quali temi e quali modelli debbano essere promossi e quali accantonati, indipendentemente dalla qualità artistica dei prodotti, ci troviamo di fronte a una classica strategia di propaganda totalitaria. Naturalmente, questa strategia non nasce con la decisione dell’Academy, né si limita al settore cinematografico: negli ultimi mesi, e ne abbiamo parlato più volte anche su Hic Rhodus, l’invadenza della political correctness è diventata soffocante.
Agli episodi di discriminazione, assolutamente reali a livello di vita quotidiana, “della strada” se posso usare un’espressione impropria, che in linea generale i “gruppi sottorappresentati” subiscono (non solo in USA), la strategia che sto chiamando totalitaria oppone, a livello delle istituzioni e della leadership culturale, sue discriminazioni di tutt’altro segno, che non sono meno inique perché ammantate di un’aura di inclusività.

Il risultato è che chiunque, in buona o cattiva fede, può dichiararsi vittima di discriminazioni a qualsiasi livello, informale o normativo, istituzionale o popolare, nella cultura “alta” o in quella “bassa”. E questo risentimento può essere sfruttato, e lo è, da tutta una varietà di soggetti politici che tentano di convogliare a proprio vantaggio la polarizzazione che la political correctness accentua anziché riequilibrare, come teoricamente dovrebbe.
Il successo di Trump nelle elezioni del 2016 non fu dovuto solo alle azioni di disinformazione rese possibili da Cambridge Analytica & C. (che pure ci sono state), ma da un effettivo malessere dell’elettorato maschile e bianco della classe media che era evidente anche da altri segnali (ad esempio, come abbiamo visto già in un nostro articolo del 2018, da un incremento dei tassi di suicidio in quelle fasce di popolazione). Decisioni come quelle dell’Academy non comportano solo il rischio di ritrovarci con una generazione di film “sovietizzati”: sono un pericolo per la democrazia in senso più ampio.

38 pensieri riguardo “Siamo in una dittatura? Hollywood dimostra che è così.

  1. Purtroppo storicamente gli Oscar sono un premio di questo tipo, ecco perché non capisco l’entusiasmo quando si cita un film premiato: non vuol dire che sia un buon film, solo che quell’anno è quello che più risponde alle direttive ricevute dalla corrente che va per la maggiore.
    Dagli anni Quaranta una legge americana impone al cinema di usare attori di colore per ruoli di colore, cosa per nulla scontata, prima, ma solamente dagli anni Novanta un attore nero può essere premiato con l’Oscar, cosa che peraltro avviene molto raramente. L’Academy riceve da sempre regole, a volte da una parte, a volte dall’altra, per questo è un premio che non c’entra nulla con la qualità del film e andrebbe totalmente ignorato.

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    1. Vero. Certo, al di là dello sforzo faticoso e della retorica ipocrita che comporta, almeno pretendere che un personaggio nero sia interpretato da una persona nera, pare comune buonsenso.
      Ma che ci debba essere un nero (*asiatico *gay *poverello *transindioamericano * zoppociecosordo)… beh.
      Nel mezzo ci sarebbe una cosa molto umana, spesso balorda ma nondimeno degna d’attenzione, che è la spinta della società verso determinati temi o modalità di fare cinema (non con gruppi di pressione, ma in modo informale: se la gente si rompe le scatole di vedere la donna svenevole e l’uomo macho, semplicemente tu lo avverti e ti avverte l’incasso, e cambi).

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      1. E’ lo specchio dei tempi, basta guardare un qualsiasi serie film o serie TV degli anni Duemila: c’è un nero e un asiatico sicuro, poi si va giù seguendo il filo delle minoranze quanto concede la trama. Recentemente sono arrivati i transgender perché i produttori sanno benissimo che tutti guarderanno loro, discuteranno, litigheranno, lanceranno accuse razziste, faranno a botte… e nessuno farà caso alla storia in cui sono calati, così che il prodotto si vende per mera polemica.
        Così come gli attori fanno a botte per interpretare handicappati perché sanno che sono premi a pioggia assicurati: sono categorie razzistiche, anche se al contrario, che da sempre dirigono il mondo dello spettacolo.
        Quando in “Orange is the New Black” assumono una direttrice palesemente incapace, alla sua richiesta di sapere perché l’hanno scelta le rispondono “Perché sei nera, e il Governo ci dà contributi se assumiamo minoranze, oltre a farci bella figura con la stampa”. La qualità del lavoro dunque non conta: conta la minoranza che va di moda.
        Questo ha creato parecchie aberrazioni, per esempio stando a serie e film sembra che in America sia pieno di neri, il che non è, ma essendoci un attore nero in ogni singola produzione esistente dagli anni Quaranta ad oggi, viene da pensare che siano parte integrante della popolazione ovunque, e che siano amiconi dei bianchi, perché il black buddy è un elemento fisso e obbligatorio. Chris Rock prendeva in giro questa cosa: “Io ho tanti amici bianchi, e tutti i miei amici bianchi hanno UN SOLO amico nero: cioè me!” 😀

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        1. Non a caso quando ha condotto lui la notte degli Oscar ha piazzato stoccate sul razzismo dell’ambiente davvero forti, anche perché è un argomento che infiamma moltissimo, anche se ce lo ricordano solo quando, un giorno sì e l’altro pure, sparano a un nero. Lui e David Chapelle parlavano di queste cose già decenni fa, ma ogni volta pare che tutti scoprano il razzismo, e via l’Academy a correre ai ripari…

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  2. In questo mondo sempre più fottuto dai lestofanti forma e sostanza continuano a confondersi a vicenda. Si fanno cose a ca$$o che avrebbero un certo scopo teoricamente “positivo” ma che nei fatti lo deludono completamente. Ecco perché vi invito a guardare come stanno davvero le cose, indipendentemente da come ce le vorrebbero presentare.
    Che effetto produce una certa cosa? Tante volte nonostante gli intenti dichiarati, si ottiene esattamente il contrario. Allora occhio! E viviamo nella realtà, non in quella cosa che ci raccontano…
    Per quanto riguarda il caso specifico, sì, è fuori da ogni logica, ma dato che dei premi Oscar non mi frega niente e non sono cose pubbliche, non mi interessa.
    Se però un discorso del genere lo facessero alla RAI, mi comincerei a inca$$are.

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    1. Sarà perché sto leggendo King, amore, ma ti ho visualizzato nitidamente in versione predicatore americano, di quelli che s’arrampicano sulle cassette della frutta agli angoli di strada per annunciare l’Apocalisse 😀

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        1. XD

          (… mi sono alzata adesso.
          Controllo veloce delle notifiche, spero tu non abbia cercato di contattarmi trovandomi irreperibile, cosa che tra l’altro ho sognato accadeva – ma si trattava di mia mamma.
          Poi se non lo dimentico lo scrivo, quel sogno…).

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        2. Adesso li hai terminati i pastigliotti, vero?
          Ti posso fare una domanda? Non ti offendere però! Lo hai preso esclusivamente solo per dormire o un filino anche per altre motivazioni (tipo che ti senti un po’ stressata da qualcosa)?

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        3. Ehm, in effetti no: questo era l’ultimo del blister (e credevo fosse l’ultimo del tutto, come ti dicevo giù da te), ma poi ho visto che invece ne ho altre due confezioni nell’armadietto.
          Non lo prenderei mai per stress o ansia (se ne avessi bisogno davvero, cosa che non è, lo farei presente alla psycho e riprenderei un’assunzione regolare). No, lo uso come sonnifero visto che ha questo effetto, anche se tecnicamente non lo è.
          Non sono stressata per le prossime settimane, amore 🙂 Tranquillo.

          Piuttosto, io penso che ne potrei fare ancora uso visto che ne ho (sempre occasionale), ma se questo dovesse preoccuparti troppo – anche se ti ho spiegato che non c’è motivo -, dimmelo.
          Posso aspettare il prossimo Banco Farmaceutico e regalarlo (la scadenza è abbastanza in là).
          Ah, semmai su questo rispondimi per mail 😉

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        4. Se lo usi una volta ogni tanto per dormire, ma tu sei sostanzialmente in condizioni buone di salute, penso possa andar bene.
          Se però lo usi anche quando c’è qualcosa che non va (fisicamente), questa cosa continua a spaventarmi. Sarà che tu non hai fatto le mie esperienze… che delle volte mi sono dovuto svegliare per sistemare le cose sennò chissà come sarei finito…
          Stavo pensando… Vuoi che lavoro un po’ al racconto che parla anche del pastigliotto così ti faccio capire ancor meglio il mio punto di vista (anche se sostanzialmente le cose importanti ce le siamo già dette e sappiamo già che il nostro dissidio nacque solo da delle incomprensioni)?
          Se pensi che sia utile, lo completo. Sennò lo lascio stare lì e semmai lo pubblicherò più avanti, forse.

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        5. Lo capisco.
          E hai ragione, io quelle tue esperienze non le ho vissute. Ma prova a pensare che proprio per questo non rappresentano un rischio: non le ho vissute perché il mio corpo è diverso.

          A proposito del racconto, sai che io sono curiosa e sì, certamente mi chiarirebbe ancora di più come la vedi.
          Perciò sì, mi piacerebbe che lo continuassi; ma solo se ti va. Se in questo momento vuoi far altro, non c’è problema 😉

          Mi vesto ed esco (mattiniera! Hai visto che bello? Grazie al recuperone di ieri 😉 )
          Baci 😘😘😘

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  3. Comunque, visto che l’argomento è stato sfiorato sopra, preferisco le serie americane dove trovi sempre almeno un omosessuale a quelle italiane dove, se ce li mettono, sono quasi sempre parodie di barzellette su quei ruoli.
    Cioè, se come si dice, gli omosessuali rappresentano almeno 10% della popolazione, è anche giusto che si smetta di far finta (qui in Italia) che non esistano o che siano casi strani/umani.

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    1. Mah, di recente di ruoli omosessuali non macchiettistici ce ne sono stati.
      La mia impressione è che su quelli femminili, almeno in Italia, ce la si cavi meglio; ma appunto è solo un’impressione.

      (Ah, controlla Telegram 🙂 )

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  4. Che dire? Sono d’accordo con quanto scritto, anzi quando le dico io queste cose mi becco pure gli insulti, il più carino dei quali è quello di morire tra atroci sofferenze, questo perché chi dice queste cose fa parte di quella schiera di “pacifisti e pieni di amore” dove l’odio e la violenza la scatenano sempre e solo gli altri e mai loro.

    Oltretutto faccio notare che le più grosse stupidate presenti al mondo (politicamente corretto incluso) provengono sempre, solo ed esclusivamente dagli Stati Uniti per poi essere copiate negli altri Paesi (Italia inclusa) solo perché vanno di moda. Avrò o no ragione di dire che gli americani sono il popolo più stupido e ipocrita di questo mondo? Se sono soprannominati i cugini scemi degli inglesi un motivo ci sarà…

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    1. Accade anche a me, accade, fidati…
      … un po’ mi ha anche stupito il gradimento a questo post, infatti, ma forse è dovuto al fatto che il politicamente corretto è un mostriciattolo che ha tante facce, e questa casualmente va a toccare gli interessi di molta più gente, o almeno lo fa visibilmente, rispetto all’imposizione delle teorie gender, per esempio.
      E pensare che il meccanismo è identico.

      Di certo la tradizione americana in materia di ipocrisia è superlativa.
      Che domini su altre forme di ipocrisia – in Occidente, però – è scontato, essendo ancor oggi il polo culturale più capace di dominare, in modo diretto e spartano, sugli altri. Il fatto di essersi espanso così tanto nei decenni scorsi vuol dire molto: ora che tutto sommato anche gli USA sono in fase decadente, in pratica vivono di rendita.

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  5. Trovo assurde queste regole, che rischiano di imbrigliare la creazione artistica in una serie di norme da rispettare. Penso che l’artista debba avere una certa libertà, debba poter trattare gli argomenti che gli stanno a cuore, senza obblighi che puzzano da lontano di ipocrisia. Certamente, se un film è ambientato ai nostri giorni, è normale che vi siano rappresentate le minoranze etniche o sessuali che ne fanno parte, ma non per poter barrare una casella (nero, messo, gay, messo, asiatico, messo…), ma mettiamo che io voglia scrivere un romanzo o girare un film ambientato in un periodo o in un contesto in cui la presenza di certi segmenti della popolazione non sia così scontata…

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  6. Non seguo il cinema e tutti i film e le serie che guardo sono su Netflix. Ultimamente, sarà il clima pre elettorale negli USA, è evidente che caricano solo materiale con una certa visione politica. È diventato fastidioso, e dire che mi consideravo di essere più vicino a quella corrente che all’opposta. Ma il senso di venire imboccati con sempre la stessa roba, solo condita diversamente, è troppo forte.

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    1. E’ un trend ormai affermato e costante, al di là di periodi in cui straborda da ogni angolatura – come appunto noti, le elezioni sono uno di questi.
      “Imboccare”: ecco un verbo che rende bene l’idea. Magari anche ingozzare.

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