Sogni .15: Scope, cappelli e telefoni

Ieri sera avevo il cellulare completamente scarico. Essendo già tardi e dato che stavo per andarmene a dormire, ho deciso di spegnerlo, di levare la batteria (nel caso poi avesse deciso di far suonare ugualmente la sveglia) e mi sono pigliata un sonnifero a scopo di recupero – ero in debito di sonno per aver tirato un po’, ma neppure troppo, tardi qualche sera di questa settimana.
Per questo, come spesso càpita, ho subito riciclato il fatto dentro al successivo sogno mattutino. Ed ora vi racconto quel che ne ricordo.


In principio fu una specie di fuga. C’erano squadroni interi di generici agenti, appartenenti più a corpi segreti che alle comuni forze dell’ordine, che ci inseguivano (stavo immersa in una folla di persone, tutte sconosciute le une alle altre). Immagino che in questo c’entrino le immagini di Stu Redman che, ne L’ombra dello scorpione, scappa da Stovington dopo aver rischiato d’essere eliminato.
Nel corso del sogno la fuga si faceva sempre meno veloce ed ansiogena, trasformandosi quasi in una gara a premi (anche se, e questo è bene sottolinearlo, permaneva comunque una sensazione di sudditanza, e della necessità di compiacere gli aguzzini mostrando una forte dedizione: una forma di sindrome di Stoccolma).
Ricordo in particolare che ad un certo punto, per soddisfare le loro richieste e soprattutto quelle di uno di essi che mi seguiva personalmente, mi sono procurata scavando in un mucchio di oggetti abbandonati in un angolo un cappello creato all’uncinetto (come quello che una mia amica due mesi fa mise nel sacco di vestiti da smaltire di cui mi sono occupata io). Poi una scatolina quadrata, di stoffa colorata, che ho messo dentro il cappello – lo portavo alla rovescia, appoggiato sulla testa come le anfore d’acqua che le donne africane si portano via dal pozzo. E infine, nella scatolina ho posato un topolino di pezza.

La seconda parte del sogno si svolgeva invece dentro al mio vecchio istituto superiore, in città. Prima, assieme ai compagni di classe (che non corrispondevano a quelli avuti realmente), dovevo eseguire un ripetitivo, ma parimenti impegnativo e rigoroso, esercizio che includeva fra gli attrezzi usati delle scope di saggina e dei vassoi di legno istoriato.
Poi restavo sola a lavorare su un progetto personale, ma quando mi accorgevo che si stava facendo tardi, scoprivo di non poter contattare mia madre per avvisarla (il cellulare, per l’appunto, era scarico) e mi preoccupavo che si preoccupasse per me. Allora mi rivolgevo al bidello, per il quale ho mutuato nome, aspetto e voce dal mio bibliotecario, e gli chiedevo di poter usare il fisso (un vecchio modello color grigio topo a ruota). Nel mentre che componevo, sbagliando un centinaio di volte, il numero di casa, mi domandavo agitata se sarebbe servito a qualcosa: in fondo mia madre era sorda, e sarebbe stato già un miracolo se avesse avvertito anche solo il trillo. Altro che parlare…
… ma su questo dubbio, mi sono risvegliata.
Evidentemente, neppure un sonnifero riesce ad impedirmi di rammentare ampie porzioni dei sogni più tardivi.

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