Politicamente corretto .3: C’è p.c. e p.c.

Del pamphlet di Hughes (letto a ottobre) avevo detto che avrei riportato diverse citazioni, ed eccoci. E’ un testo misurato, a dispetto del genere; vi si intrecciano politica, arte e storia, rendendo conto dell’impatto della prima sulle seconde in questo tempo in cui tutto è formalmente lecito ma nulla è concretamente accettabile.
E consapevole che gli estremi si toccano: anche se il politicamente corretto è un mostro dalle cento teste nato, cresciuto e nutrito a sinistra, l’ideologia nel suo significato degenere s’annida anche a destra (l’autore non solo non lo nega, ma da vero conservatore ci tiene ad indicarla alla pubblica vergogna). In tale contesto, le storture del pensiero unico assumono le tinte, e la denominazione, di “patriotticamente corretto”.
Spesso si tende a credere che essere politicamente corretti, al di là di una certa affettazione, non voglia dir altro che rispettare le persone, nella loro diversità, utilizzando allo scopo un linguaggio appropriato. Ma appropriato per cosa? E quali sono gli effetti del “pensare nel modo giusto” l’altro?

Non facciamo fiasco, riusciamo meno bene del previsto. Non siamo drogati, eccediamo nell’uso di sostanze stupefacenti. Non siamo paralizzati, ma affetti da tetraplegia. E la nostra verecondia verbale si spinge oltre la morte: un cadavere, esortava nel 1988 il “New England Journal of Medicine”, andrebbe chiamato “persona non vivente”. Di conseguenza un cadavere grasso sarà una persona non vivente portatrice di adipe.

Se esiste un linguaggio corretto, del resto, deve esisterne uno scorretto. Ed esso non è generato dal nulla, ma s’intende comunemente ispirato e promosso da precise categorie sociologiche:

[…] una delle tendenze più corrosive della società americana di oggi – corrosiva, intendo, per qualsiasi idea di terreno civile comune: la tendenza a trattare le asserite esigenze culturali ed educative di un gruppo (donne, negri, ispanici, cinoamericani, gay, e chi più ne ha più ne metta) come se esse prevalessero su qualsiasi esigenza individuale, e fossero tutte, automaticamente, in conflitto con i presunti voleri monolitici di una classe dominante, alternativamente demoniaca e condiscendente, composta di capitalisti bianchi maschi eterosessuali.

Mai però si riconosce come questo stesso modo di porsi, e di porre la questione in termini tanto perentori ed assoluti, rappresenti a sua volta una forma – e pure molto aggressiva – di pensiero sclerotizzato e presunto superiore.

Negli ultimi tempi l’America rigurgita di casi in cui qualcuno impedisce a qualcun altro di dire qualcosa, e poi nega che sia in ballo la libertà d’espressione.

Molte delle richieste e lamentele avanzate dai gruppi di pressione politicamente corretti sono patenti espressioni dei paraocchi adottati dagli attivisti, e della loro incapacità di approfondire una visione sociale – anziché estendere in senso orizzontale e piatto il proprio potere di controllo sugli eventi che essa determina:

Nel femminismo americano c’è un’ampia frangia repressiva, autocaricaturale e spesso di una piccineria abissale, come la squadra accademica di polizia-del-pensiero che recentemente è riuscita a far togliere da un’aula dell’Università di Pennsylvania una riproduzione della Maja desnuda di Goya. E ci sono puritane demenziali come la scrittrice Andrea Dworkin, che giudica ogni rapporto sessuale con gli uomini, per quanto consensuale, una forma politicizzata di stupro.
Ma questo sminuisce forse, in qualche modo, la fortissima aspirazione di milioni di donne americane ad avere parità di diritti con gli uomini, ad essere libere da molestie sessuali sul posto di lavoro, a vedersi riconosciuto il diritto in materia di procreazione, di essere prima persone e poi madri?

No. Ciò che è sacrosanto è sacrosanto, anche se espresso da persone detestabili o all’interno di un coacervo d’altre istanze del tutto negative.
Varrebbe la pena che ce lo si ricordasse, anche a sinistra; per esempio quando una donna di destra afferma un medesimo princìpio e lo fa a modo suo, con parole sue, con obbiettivi che non sono i vostri (mi permetto la seconda persona plurale, riconoscendomi nella figura appena abbozzata).

Né umili né tronfi: l’atteggiamento giusto è un normale, rilassato portamento eretto.
Forse questo vale anche per i tanti fautori del separatismo culturale di gruppo (nero, ispanico, indiano, femminista, gay, quello che sia), che riempiono l’America di una retorica fragorosa e spesso sconclusionata sull’ “orgoglio” e la “parità”.

Una parità solo concettuale, che si rivela immancabilmente essere un mero appiattimento del valore – della diversità – verso il basso e l’omologo pessimo:

“Stando all’ideologia dominante”, scrive il pedagogista Daniel J. Singal, “è molto meglio rinunciare alla prospettiva dell’eccellenza che rischiare di avvilire uno studente. Anziché spronare gli allievi a porsi obbiettivi alti, gli insegnanti dedicano le proprie energie a far sì che i meno capaci non si sentano inadeguati… spesso si avverte quasi un pregiudizio contro gli allievi bravi”.
[…] quando l’antielitarismo degli anni Sessanta ha preso piede nella scuola americana, si è portato dietro una sconfinata, cinica indulgenza verso l’ignoranza degli studenti, razionalizzata come riguardo per l’espressione personale e l’ “autostima”. Per non “stressare” i ragazzi con troppe letture e troppi sforzi cerebrali (cosa che, al contatto con richieste di livello universitario, poteva far crollare le loro fragili personalità), le scuole hanno ridotto la quantità di letture, riducendo così, automaticamente, anche la loro padronanza della lingua. Non esercitati all’analisi logica, male attrezzati per sviluppare e capire un’argomentazione, non avvezzi a consultare testi per documentarsi, gli studenti hanno ripiegato sulla sola posizione che potevano rivendicare come propria: le loro sensazioni su questo o quello. quando gli stati d’animo sono i principali referenti di un’argomentazione, attaccare una tesi diventa automaticamente un insulto a chi la sostiene, o addirittura un attentato ai suoi “diritti” o supposti tali: ogni
argumentum diventa ad hominem e rasenta la molestia, se non la violenza vera e propria.

Ciò vale nell’istruzione come in ambiti che per loro natura sono non soltanto soggetti a giudizio, ma primariamente e soprattutto generatori di giudizio, di ottiche valoriali condivise: come la creazione artistica.

La qualità, si dice, è un trucco, il risultato di una congiura dei maschi bianchi per emarginare il lavoro di altre razze e culture. Invocarne la presenza nelle opere d’arte è in qualche modo un atto intrinsecamente repressivo.

E questo discorso, di circa otto anni fa, si ricollega senza soluzione di continuità a quanto si diceva a proposito di Hollywood e delle sue pretese “coloristiche” – ma anche all’ancor più recente piagnisteo d’un’atleta paralimpica per via del personaggio interpretato da Anne Hathaway nella trasposizione de Le streghe, il celebre libro di Road Dahl: personaggio offensivo per i mutilati tutti, dice quella, poiché… ha soltanto due dita.
Purtroppo per gli attivisti le razze, le etnie, le propensioni sessuali o sociali meno preponderanti – questo è assodato ma non ancora abbastanza assimilato – non sono perciostesso moralmente migliori di chi detiene un maggior potere (ormai sempre più teorico).

[…] l’evidenza storica dimostra che in fatto di uccisioni, torture, materialismo, schiavizzazione, ecocidio ed egemonia sessista i popoli delle Americhe, per secoli e probabilmente per millenni, se l’erano cavata abbastanza bene.
[…] Preservare la complessità, senza appiattirla sotto il peso di un anacronistico moraleggiare, fa parte del compito dello storico.
[…] Se, come ha detto una volta H. Rap Brown (attivista negro dgli anni Sessanta), la violenza è americana come la torta di mele, la schiavitù, sembrerebbe, è africana come le patate dolci. […] Africani, islamici, europei, tutti ebbero parte nella schiavitù dei negri, la esercitarono e trassero profitto dalle sue miserie. Ma alla fine soltanto l’Europa (includendovi, in questo caso, il Nordamerica), di dimostrò capace di concepirne l’abolizione […].

Ma sono solo pochi, “piccoli” esempi. Esistono leggende nere per ogni ramo dello scibile umano. Sono certa che ognuno di voi può rinvenirne una che si è sentito rinfacciare.
Il punto fondamentale a mio avviso è, comunque, che conoscere la realtà e darne un giudizio è un atto inevitabile, con buona pace dell’interpretazione sviata ed infantile del versetto evangelico nel quale Cristo invita a non giudicare.
Ribadisco anche, ma è un aspetto secondario che basta poco a precisare, la mia passione per l’uso denotativo del termine “discriminazione”: ossia valutazione, distinzione.

Discriminare è nella natura umana: facciamo scelte e diamo giudizi ogni giorno. queste scelte sono parte dell’esperienza concreta. Naturalmente vengono influenzate dagli altri, ma in sostanza non sono il prodotto di una reazione passiva all’autorità.

Da persona che si ritiene discretamente lucida e razionale, trovo particolarmente irritante l’idea che gli esseri umani siano non solo creature sociali e talvolta gregarie, ma persino vuote di senno; incapaci di ragionare (sia pure male).
Anche per questo non mi piacciono certe contestazioni collettive molto scenografiche e rumorose: mi annovero tra coloro i quali

[…] danno più valore […] a una contabilità precisa dei sentimenti che non alla mera espressività o contestazione.

11 pensieri riguardo “Politicamente corretto .3: C’è p.c. e p.c.

  1. Concordo in tutto, qua si è veramente superata la linea della follia. E se la persona che citi parla della situazione negli Stati Uniti, qua da noi è forse anche peggio con i somari deficienti che ci ritroviamo e non solo in politica.

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      1. In tutti questi anni non solo è peggiorata ma ha trovato fertile nei tanti, troppi ignoranti che hanno abbracciato questa ideologia malata per…??? Moda? Penso di sì, non posso credere che esistano persone che ci credano realmente a questa roba qua.

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        1. Eh, io purtroppo credo il contrario.
          Posto che esistono pur sempre due livelli di azione: quello delle masse, per intenderci, o del popolo se vuoi, insomma di chi viene indottrinato (anche nelle organizzazioni stesse), e quello di chi orchestra e non prende affatto seriamente ciò che promuove.
          (Sarà un discorso un po’ rozzo, abbastanza da suonare complottista, ma).

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        2. No no è proprio così come hai detto. Chi orchestra non crede mai in quello che fa, ma lo fa per scopi ben precisi e non troppo velatamente, e per fare in modo che lo scopo vada a buon fine c’è bisogno di una grossa massa di creduloni affinché lo porti non solo avanti ma a compimento. In una parola, c’è bisogno degli utili idioti pronti a votarsi per la causa. Senza di loro non si combina nulla.

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  2. il discorso sul politicamente corretto lo condivido. Sulla vicenda di “Streghe”, lo scambio originale è meno sgradevole di quanto si possa pensare leggendo gli articoli in Italiano: Marren ha fatto notare che quelle sono sostanzialmente le mani di una persona affetta da Ectrodattilia (non “gli amputati” in generale), e ha chiesto se fosse una scelta consapevole e premeditata. La produzione si è scusata e si è assunta le sue responsabilità, senza annunciare i repulisti che di solito seguono a questo tipo di segnalazioni.

    Poi è partita anche una campagna di boicottaggio, che io aborro, ma a quanto ne so non da Marren o dall’associazione di cui fa parte.

    Quello che infastidisce del P.C. è l’ossessione della correttezza formale che imbavaglia qualsiasi espressione, ma finchè si muovono critiche in maniera circostanziata, anche se non le condivido, a me va bene.

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    1. Grazie per la precisazione.
      Dal tweet della Marren che leggo qui direi che la domanda non fosse neutra e animata da sincera volontà di avere un confronto, ma più provocatoria e tranchant; però ognuno può giudicare da sé:
      https://www.insidethegames.biz/articles/1100343/the-witches-paralympics-amy-marren

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  3. La questione del politically correct è complicata, ogni tanto mi dico che vorrei scrivere qualcosa a proposito, ma poi son troppo pigro per farlo. Istintivamente mi infastidisce, ma ha anche alcuni meriti, o, per lo meno, aiuta a sconfiggere alcune cattive abitudini (tanto per dire: il paziente o, ahimè, la paziente, che in un ospedale si rivolge al dottor Mario con “dottore” e alla dottoressa Maria con “signorina”)

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    1. Diciamo che questa questione per me attiene all’esattezza linguistica, che è già in sé politica e fonte di giustizia; senza scomodare quel di più che inventa termini nuovi e falsi.
      Se ho una qualifica e tu me la neghi in quanto donna, per ripristinarla non sarà necessario mettermi su un piedistallo (così infossando il mio collega maschio di pari grado), ma piuttosto riconoscere una realtà, senza aggettivi né edulcoramenti.
      Ma se questa stortura è potuta andare tanto avanti, è vero, dipende molto anche dal fatto che si presenta come uno strumento di giustizia e parità, laddove invece semplicemente sposta l’ingiustizia da un estremo all’altro.

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