Polisemie

Alcune settimane fa sono intervenuta, nel mio piccolo, in una discussione su Facebook (ebbene sì, mi sono reiscritta) sul profilo di Emiliano Rubbi, uno che val la pena leggere anche quando non si concorda con lui per la sua chiarezza di pensiero e pulizia di esposizione.
La discussione (nata come spesso capita da un appunto del tutto marginale ad un post che parla soprattutto d’altro) verteva sull’uso di un’espressione romanesca – “sticazzi” – da parte dei milanesi e nordici in generale (bresciani compresi, confermo io). Noi nordici, infatti, non utilizziamo lo sticazzi (solo) nell’accezione originale del dialetto romanesco dal quale proviene, ma (anche) in parecchi altri sensi. Esattamente, del resto, come i bresciani fanno con “pota”.
Non intendo tornare, qui, sul merito della questione: purtroppo, pur trattandosi di una cosa che reputavo non particolarmente problematica e foriera di dissenso, in realtà s’è subito trasformata in uno scontro di civiltà.
Voglio invece dichiarare pubblicamente il mio amore per questo modo di estendere ampiamente il significato di un termine, capace così di veicolare intenzioni, reazioni e sensazioni diverse interagendo col contesto ed attraverso il paraverbale.
È più di un’enantiosemia ma meno di una parola-passepartout (cioè generica, come il coso per cosare): può esprimere alternativamente indifferenza, entusiasmo, sorpresa, accettazione, curiosità, può essere ironica o affettuosa, indignata o divertita, si attaglia tanto ad una affollata conversazione quanto alla riflessione tra sé e sé.

Pòta pòta gnari,
evviva il dialetto
e un sentito ‘sticazzi a chi bofonchia.

20 pensieri riguardo “Polisemie

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