Sogni .24: Disperato-traumatico

Stiamo ristrutturando e rinnovando casa. Si va dalla tinteggiatura (sui toni del blu) alla sostituzione dei lampadari. E’ proprio mentre un operaio sta lavorando a uno di questi che cadiamo in un inatteso blackout.
Per qualche ragione che ormai ho obliato me la prendo con mio padre, che a mio avviso mi ha negato la scelta del nuovo lampadario (o qualcosa di simile).
Avrò modo di pentirmi di questo risentimento più avanti, dopo aver inframmezzato a questo altri sogni; dopo molte ore in cui non l’ho più sentito chiamerò infatti mio padre dispiaciuta dello screzio, ma al suo numero risponderà mia cugina, di professione infermiera (nella realtà) che mi comunicherà quanto segue: mio padre ha avuto un incidente nel pomeriggio, mentre ero fuori, ed ora si trova nel reparto SomniCell© – una sorta di rianimazione avanzata.

Prima che ciò accada, però, mi trovo a fare la spesa all’ipermercato, con mia madre.
Mentre lei studia attentamente aspetto e prezzi del pesce, io mi dedico a cumulare nel carrello una montagna di dolci, soprattutto carichi di cioccolato.
Sto vivendo questo momento come una valvola di sfogo, come l’attimo della liberazione seguito ad una schiavitù della quale non ricordo la forma e la modalità, ma che ancora sento addosso.

Prima ancora di questo, c’è stato altro.
Una vigilia di Natale trascorsa nella vecchia casa, la più importante, la più mia; insieme ai parenti (per l’occasione onirica pochi e buoni), con lo stesso calore di un tempo, la stessa atmosfera festosa e affettuosa.

E prima ancora: sto lavando i piatti al lavello davanti alla finestra, guardo fuori mentre mia madre e mio fratello (un A. giovane, molto giovane) si danno da fare vicino, in cucina, senza parlare.
Spiego a un uomo – non so chi sia, è in visita – che lei è sorda e non gli risponde perché non sente le sue domande, lui è malato e non parla. Accetto l’idea e non provo sofferenza.
Mentre spiego osservo gli infissi bianchi, le maniglie nere della finestra, e rifletto che sto vivendo un ennesimo episodio di “nostalgia anticipatoria”: percepisco nettamente come mi sentirò quando, in futuro, rivivrò nel ricordo questi istanti e proverò nostalgia per ciò che è stato, per la vicinanza che tutti e tre stiamo sperimentando e so non durerà per sempre.
Immagino anche che vorrò inserire questo ricordo in un libro, un memoriale, quello che ancora non ho scritto.

Se le sequenze precedenti costituiscono un blocco unico, la seconda fase del sogno se ne distacca bruscamente ed assume tinte fosche. Anche letteralmente: se si trattasse di un film, sarebbe girato tutto in notturna, con un direttore della fotografia nato in periferia e che sa vedere le cose solo attraverso un pesante filtro grigio. Se fosse un film, il secondo sogno sarebbe Non aprite quella porta (l’Hooper originale, naturalmente).
Siamo in una foresta, nel pieno della notte, e distinguiamo appena le differenze di tonalità tra il folto del bosco e le radure. C’è aria di angoscia e di predazione. E una preda in effetti la scopriamo subito, in qualità di spettatori immersi nell’azione, ma impossibilitati a parteciparvi ed invisibili per i suoi attori. La preda è la mia amica S. L’uomo che l’ha catturata e imbrigliata è un bruto, un essere minorato e sottosviluppato ma, nondimeno, dotato di appetiti voraci.
Dico appetiti e intendo quelli orali, non quelli sessuali: il corpo della vittima – non oso più pensare alla persona che ho identificato, ma soltanto ad una categoria generica – viene prima sezionato accuratamente dal bruto e dal suo complice, che sento essere suo padre, poi brutalizzato e picchiato, infine ridotto ad una serie di ammassi carnei che i due impastano e staccano pezzo a pezzo per nutrirsene, compiaciuti della carneficina non meno che del suo prodotto.

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