Perché conta tanto il cognome del padre
Avvenire 21 Febbraio 2021
Il tema è dibattuto e controverso: è giusto dare al bambino il cognome del padre? Non sarebbe meglio mettergli entrambi i cognomi, oppure lasciare ogni coppia libera di scegliere secondo le proprie preferenze?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prima di tutto riflettere su qual è il significato del cognome, perché al di là delle apparenze la questione non è in realtà banale né secondaria sul piano culturale e sul piano delle conseguenze giuridiche.

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Il cognome è un “nome aggiunto” al nome proprio, che ci definisce, segnando la nostra appartenenza a quel particolare gruppo che è la famiglia: gruppo formato da persone legate tra loro da vincoli che definiamo di parentela, dimenticando forse che la parola origina dal latino parens, cioè genitore.
La parentela ci parla dunque di legami specifici e non scindibili: i legami di maternità, paternità, filiazione e fratellanza; il cognome nasce per definire in modo univoco questi legami, racchiudendo le diverse identità personali in una identità condivisa più ampia e complessa, che dichiara un vincolo di reciproca responsabilità.
Il cognome, dunque, identifica un territorio relazionale preciso; è il segno di un “noi” condiviso nel quale l’individualità non viene persa, ma piuttosto viene arricchita e meglio specificata dalla presenza di una comune storia relazionale: io sono me stesso anche in quanto figlio (fratello, padre, madre, nipote…) delle persone della mia famiglia, di cui porto incarnate in me le tracce.
Nel rapporto di parentela, il corpo che genera e viene generato costituisce la sorgente prima del legame reciproco e ne determina la forza; ma la forza di questo legame biologico non è la stessa nei confronti del padre e della madre. Nel legame con la madre il legame biologico è diretto, e costituisce il fondamento stesso della relazione: è la presenza in quanto tale del figlio dentro di lei ciò che trasforma la donna in madre, dando vita a un legame che è da subito percepito da entrambi come definitivo.
Il rapporto tra padre e figlio invece non è alla sua origine un rapporto corpo-a-corpo, ma un rapporto indiretto, che passa dalla triangolazione dell’uomo con la donna-madre attraverso la quale riceve il figlio; si tratta di un legame cui l’uomo può (ingiustamente) decidere di sottrarsi e che gli richiede perciò una decisione e una scelta precise: essere padre significa “riconoscere” e nominare quel bambino come figlio e farne il proprio erede, con una scelta che chiede assunzione di responsabilità.
Si tratta perciò di un legame nel quale la valenza culturale supera decisamente la pur presente valenza biologica, e che richiede dunque un più forte riconoscimento; l’attribuzione del cognome del padre va esattamente in questa direzione: è il modo allo stesso tempo concreto e simbolico in cui un uomo accetta e insieme dichiara di legare a sé il figlio in modo definitivo, e lo inserisce concretamente nella propria storia così come suo padre aveva fatto con lui. In questo senso, dare al figlio il proprio cognome è anche fare i conti con il proprio essere figlio di un padre, con i suoi pregi e i suoi limiti, accettando di portarne avanti l’eredità.
La maternità non ha bisogno di questo sostegno per affermare il legame e confermarlo nel tempo: l’eredità delle madri passa soprattutto attraverso il canale affettivo, ed è lì che gioca la sua intensa partita. Le donne che amano i propri figli conoscono sempre istintivamente l’importanza di sostenere il loro rapporto col padre; gli chiedono dunque di essere presente e di costruire con il figlio un legame stabile, perché sanno che da un buon rapporto con lui passa una parte importante della definizione dell’identità e della sicurezza personali.
Proprio per questo non sentono di solito come un problema l’attribuzione al figlio del cognome del padre, ma lo vivono invece come una conferma importante: il maschio che ha generato il loro bambino se ne assume da quel momento la responsabilità non solo personale ma anche sociale, e colloca il figlio per sempre nella propria storia.
Un bell’articolo, con il quale mi sento in sintonia. Si sta cercando di far passare l’attribuzione del cognome come un’imposizione, un residuo di patriarcato; a mio avviso la parità dei sessi non significa attribuire un cognome, ma avere le stesse opportunità di studio, di lavoro, di carriera, di salario… e riconoscere, quando c’è, il lavoro di cura, educativo, parentale che spesso svolgono le madri per la maggior parte, avere servizi sociali che funzionano, asili nido, scuole materne, consultori. Educare ed invogliare i padri a dividere la cura dei figli, senza per questo diventare “mammi”… ma questo deve partire da piccoli, e devono contribuire le madri a formarli… detto ciò, se a mio figlio oltre al mio avessimo dovuto aggiungere il cognome di mia moglie, avremmo raggiunto i 23 caratteri solo di cognome, sai che rottura ogni volta che c’era da scriverlo? 😊
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Non ho figli per cui dover decidere, ma nel caso mi sposassi assumerei entrambi i cognomi – il mio, tuttavia, resterebbe per ovvie questioni cronologiche e logiche il primo.
Certo c’è differenza tra un’impostazione ottocentesca che identificava la responsabilità genitoriale con un potere sovradimensionato sulla prole, e la giusta necessità odierna di rivendicare un’appartenenza molteplice. Ma da qui a fare del cognome paterno un fantoccio da bruciare ce ne passa.
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