
L’arabista francese Gilles Kepel: «Non si fonda su organizzazioni criminali molto estese», ma su predicatori d’odio che spingono alcuni soggetti alla violenza.
E l’uso strumentale dell’islamofobia alimenta il vittimismo
di Francesco Borgonovo
Da quando la storia orrenda della povera Samam Abbasé è esplosa a livello mediatico, si moltiplicano ovunque i dibattiti sul rapporto fra Europa e mondo islamico, che purtroppo sono per lo più dominati dalle stesse, antiche, contrapposizioni e dai soliti luoghi comuni sul razzismo occidentale, la «religione di pace».
Vediamo imam e rappresentanti delle associazioni islamiche pronti a ripetere che, con la violenza, la loro fede non c’entra nulla. Siamo costretti, ogni volta, a notare i medesimi automatismi, ad ascoltare le medesime scuse. Siamo bloccati allo stesso punto da anni. Eppure, nel frattempo, il mondo musulmano non ha smesso di cambiare, e di certo non ha smesso di mutare faccia il fenomeno dell’estremismo, in Medio Oriente come in Europa.
In un robusto saggio uscito in Italia nel 2019 (Uscire dal caos, edito da Raffaello Cortina), l’arabista francese Gilles Kepel – uno dei massimi esperti mondiali della materia – aveva individuato tre fasi del jihadismo.
La prima (1980-1997) aveva come punto di partenza la lotta dei mujaheddin in Afghanistan. La seconda (1998-2005) ebbe come protagonista centrale Al qaeda e la sua lotta contro l’Occidente. La terza fase (2005-2017) è culminata nella nascita dello Stato islamico, e nella sua successiva sconfitta sul campo che ha posto fine ad almeno una parte delle atrocità commesse dai miliziani neri.
Ora ci troviamo in una nuova fase, potenzialmente ancora più insidiosa delle precedenti. Kepel ne parla in un nuovo saggio intitolato Il ritorno del profeta (Feltrinelli), un libro che faremmo molto bene a leggere con attenzione, perché delinea i tratti del futuro che potrebbe attenderci. Kepel spiega che siamo alla quarta generazione della «guerra santa», quella che egli ha battezzato «jihadismo di atmosfera».
questo jihadismo, spiega, «è strutturalmente legato alla diffusione di messaggi di mobilitazione sui social media che scatenano il passaggio all’azione criminale, e non richiede più l’appartenenza preliminare dell’omicida a un’organizzazione più reticolare come l’Isis. Al contrario, si cristallizza nell’incontro fra una domanda di azione, diffusa ondine da “imprenditori d’odio”, e un’offerta terroristica che vi risponde, senza che la correlazione necessiti di essere formalizzata concretamente».
In buona sostanza, il nuovo jihadismo non si fonda su organizzazioni criminali molto estese, bensì su una sorta di humus culturale che spinge alcuni soggetti alla violenza. questo nuovo jihadismo, ha detto Kepel a Giulio Meotti, si diffonde come un virus. I predicatori d’odio «trovano persone che hanno già “comorbidità”, già radicalizzate per amicizie o moschee, spesso dai Fratelli musulmani e dai salafiti, che hanno già compiuto la rottura con la cultura occidentale, pronti a uccidere, senza essere parte di un’operazione, piramidale o reticolare».
Il caso emblematico è l’omicidio del professore francese Samuel Paty, brutalmente ucciso dal ceceno Abdullakh Anzorov il 16 ottobre 2020. Paty era stato preso dì mira già una decina di giorni prima del delitto dal padre di una sua alunna, tale Brahim Chitina. Che colpa aveva il professore? Aveva mostrato le note vignette di Charlie Hebdo sul Profeta durante una lezione di educazione civica. Il padre della studentessa (che pure quel giorno era assente!) ha iniziato a pubblicare sui social video in cui chiedeva che Paty fosse rimosso dall’incarico. Tanto è bastato per attivare il «jihadismo di atmosfera». Come spiega Kepel, il gesto di Paty è stato fatto «passare come un atto di islamofobia attorno al quale suscitare una reazione di vittimismo comunitario musulmano». Tale vittimismo ha scatenato l’odio in Rete, che ha continuato a diffondersi finché non si è trovato qualcuno (il ceceno Anzorov) pronto a uccidere per «fare giustìzia» in nome di Allah.
In Italia, fortunatamente, l’islam politico non è ancora radicato come in Francia. Ma il vittimismo è presente eccome, e lo vediamo all’opera ogni volta che alcune associazioni islamiche prendono la parola sui giornali o in tv gridando alla discriminazione e all’islamofobia.
Su quest’ultimo termine Kepel sì sofferma con attenzione. Spiega che fu creato nel Regno Unito nel 1996, ai tempi della condanna a morte di Salman Rushdie. Esso, dice lo studioso francese, «ha come obiettivo la messa sotto accusa e la proibizione di ogni critica contro il dogma islamico in generale, e in particolare l’interpretazione che ne fanno i Fratelli musulmani, i salafiti e jihadisti». L’uso strumentale dell’islamofobia alimenta il vittimismo, e il vittimismo crea terreno fertile per i jihadisti.
Ad alimentare l’idea che in Europa i musulmani siano discriminati non sono solamente gli esponenti dell’islam politico, ma pure i volonterosi sostenitori di certo antirazzismo militante. Personaggi che, secondo Kepel, sono simili «agli utili idioti di un tempo che (dopo essere stati compagni di viaggio del comunismo, sono stati rinchiusi nei gulag come ringraziamento per la loro volontaria cecità».
I francesi chiamano questo fenomeno «islamo-gauchisme», una sorta di saldatura fra l’islamismo e una parte della sinistra europea che purtroppo è molto diffusa nel mondo accademico. «L’indigenismo è forte nelle università francesi», ha detto Kepel a Giulio Meotti «e si è saldato all’americanismo della decolonizzazione, così che i valori della Repubblica non sono più niente, sono “crimini coloniali”, non c’è. più società europea, ci sono solo razze e generi. E i bianchi sono tutti cattivi».
Insomma, la sinistra ha fornito argomenti e spazi all’islam politico, come Kepel ha chiarito in un’intervista a Le Point. «quando ho pubblicato il mio primo libro sull’Egitto, Il Profeta e il Faraone, ero un francese di sinistra, normale, come tutti all’università all’epoca», ha raccontato. «Ho trovato difficile capire come, nell’università egiziana per esempio la protesta contro il potere non fosse portata avanti da trotskisti o maoisti, ma da persone che rivendicavano gli insegnamenti di Hassan al-Banna, il fondatore dei Fratelli musulmani. queste persone mi somigliavano nel loro approccio, perché erano molto critiche nei confronti dell’establishment e promettevano una riorganizzazione, che era abbastanza facile percepire come profondamente liberticida… Proprio come sarebbe stata quella dell’estrema sinistra».
Oltre a Kepel, vari altri intellettuali francesi (autori come Pascal Bruckner) hanno cominciato a prendere coscienza della situazione. Hanno capito a quali rischi possano condurre l’ossessione politicamente corretta per le minoranze e il sostegno al vittimismo islamico fornito dall’antirazzismo militante. Dalle nostre parti, invece, si continua a chiudere gli occhi. La retorica delle minoranze da una parte spinge i musulmani ad auto-ghettizzarsi, dall’altra rafforza il vittimismo che alimenta l’odio antioccidentale. Un odio che, per stupidità, continuiamo a fomentare.