Sono un mito .13: I, spoonie.

E’ da più di una settimana che non pubblico nulla sul blog – un periodo un po’ scarso doveva pur arrivare, ma non provo disaffezione, anzi. Al contrario, non voglio, cerco di non, pubblicare post inutili solo per fare presenza. Ma stanotte (sto scrivendo all’1:41) ho il cuore pieno, e qualcosa deve uscire.

Sono ancora in piedi perché, nonostante la relativa stanchezza fisica, son pur sempre un gufo e non un’allodola. E perché mentre stavo per andarmene a letto, con l’ultimo scroll su Instagram (l’ultimo è sempre fatale) sono incappata in un termine che ho letto spesso ultimamente: spoonie.
Ho voluto cercarlo subito su DuckDuck per non scordarmene – già questa non era la prima occasione in cui me lo ripromettevo – ed ho scoperto una cosa.

Innanzitutto, non abbiatevene a male se uso termini inglesi: non sono anglofanatica, ma è in questa forma che li ho incontrati e conosciuti e proprio perché stranieri, ancora ignoti, li ho dovuti decifrare.
Per arrivare alla conclusione che sono una spoonie fatta e finita, e che se non ci sto attenta mi piglia un attacco di brain fog.
Antefatto: da un paio di settimane sto seguendo su Ig alcuni account dedicati alle malattie croniche (uno multi-autore e multi-patologia, ironico, ed uno sull’endometriosi. Ma esiste anche la Sensibilità Chimica Multipla… lo sapevate?). In questo contesto ho letto un nuovo vocabolo, brain fog: ossia quella “nebbia mentale”, appunto, che ti avvolge più e meno repentinamente, inibendo la memoria a breve termine, la capacità di connettere concetti e la concentrazione.
Mi son detta “Okay, mi pare una parolina magica molto utile. Non so se descrive tutto quello che mi càpita quando raggiungo una certa soglia di stanchezza mentale e vado in confusione, o se al contrario include anche manifestazioni che non mi riguardano. Però funziona, e per cominciare posso affiancarla a puzzle mentale, locuzione che mi ero inventata per rappresentare certi episodi frequenti, un certo mio modo di strutturare il pensiero, e motivare la richiesta di verificare le mie funzioni esecutive”.
Da cosa nasce cosa e, sempre di più, nella mia timeline è comparsa in svariate didascalie alle immagini anche la parola spoonie. Che mai sarà?
Oh, io lo so bene. Solo, non trovando un corrispettivo in italiano (ed ecco perché me ne frego di contrabbandare anglicismi: mi servono) ho sempre usato perifrasi. Per spiegare a cosa si riferisce tocca farlo comunque, ampliare il discorso, farsi voce enciclopedica ogni volta che un “profano” (cioè un sano) lo domanda. Però inter nos, tra malati rari / cronici, così è più facile. Immediato.
Tanto che, saputolo attraverso questa pagina, ho pianto un tanticchio.
Non è che sono sentimentale, è che – com’è assai più probabile tra compagni di sventura – mi sono sentita compresa. Capita. Non travisata, non soppesata con incredulità, trattata con sufficienza (ricorderete l’etichetta del “ta ghét bütép“) o banalizzata nelle mie difficoltà.

La “spoon theory” spiega semplicemente, con un esempio certo perfettibile e adattabile alle caratteristiche individuali ma tuttavia a prova di scemo, che un malato cronico (soprattutto se coinvolto in una qualsiasi sindrome che genera affaticamento) NON ha energie in misura normale, quante ne ha la media delle persone sane. Anzi, spesso non ne ha neppure a sufficienza per condurre una vita regolare nei suoi aspetti essenziali – si parla infatti anche di “disautonomia”.
In estrema sintesi, come del resto io stessa ho spesso ripetuto a vari medici e non per essere certa (??) di fargli arrivare il concetto: o cucino e mangio, magari due volte al giorno, oppure mi lavo. O curo la casa (non dico “la tiro a specchio”, ma soltanto rifaccio il letto e lavo i piatti) oppure lavoro. O dormo le mie buone nove ore per notte, come minimo, oppure non esco (di giorno, perché la sera ormai da un pezzo non se ne parla proprio).

Un fattore che complica ancor di più la situazione è la grande variabilità del benessere complessivo da un giorno all’altro. Si può, del tutto coerentemente con lo stato di malattia – che non scompare! – essere in forma, addirittura pimpanti e vivaci, il lunedì, e per tre quarti morti che camminano, sempre che ce la facciano almeno a camminare, il martedì.
Ieri, ad esempio, io ho: fatto la spesa, lavato i piatti rimasti in arretrato di tre settimane, preparato le ultime importanti cose per la stanza di Freya ed Ostara – che sono due adorabili, bellissime, paraculissime conigliette ospiti a casa mia… ma questa è la prossima storia che vi racconterò! – compresa tutta la verdura da lavare, cucinato (un pasto) per me. Ho poi appunto accolto le due bestiole e la staffetta che, gentilissima, me le ha “recapitate”, dopodiché avevo ancora abbastanza energia per passare un’oretta in loro compagnia leggendo (leggere: attività passiva dal punto di vista metabolico, e mia personale cartina tornasole. Se fatico a leggere, se mi stanca, se m’annoia; scatta l’allarme rosso: sono più che esaurita, sono nei guai).
Mentre oggi (cioè nella giornata appena trascorsa, adesso sono le 2:40), dopo essermi occupata delle coniglie nella prima mattinata, mi sono spenta. Stanchezza fisica a parte, ho proceduto col pilota automatico, ma in piena confusione mentale. Ho persino postato cose online, ma quello – almeno a me – richiede poco sforzo. Al contrario, ne richiede ben di più alimentarmi in modo regolare, costante: di nuovo, questo è un buon periodo, ma occasionalmente anche adesso che ho di solito tempi, strumenti e la serenità necessaria, può darsi che salti i pasti. O che li posticipi, o che ne faccia due, ma scarsi e sbilanciati.

E’ normale, almeno per quanto può esserlo entro un quadro patologico (diciamo allora che è tipico), essere brillanti in un dato momento e sprofondare in un burrone di fatica, dolore (fisico), intollerabilità poco dopo.
E come se non bastasse, anche nei periodi down ci sarà sempre chi ti dice: Ma io ti trovo bene! Come la nota ed esimia dottoressa Grazia Arcazzo insegna, c’è un motivo se le chiamiamo “malattie invisibili”.

Ma per non lasciarci – forse, chissà, per un’altra settimana – su una nota dolente, in chiusura vi sparo qualche foto delle bestiole (e vi anticipo che cercano una famiglia seria che le adotti, e le tenga con sé per sempre per amarle ed averne cura come si deve).
Perché nessuno può dirmi cosa sono in grado di fare e cosa no (in genere forzandomi ad impegni che superano le mie forze). Come nessuno può permettersi di affermare che sono fortunata, perché nella vita c’è di peggio, eccetera. Ma io sì. Io posso, ciascuno è libero di dire di se stesso, in tutta onestà, quanto davvero si ritiene baciato e quanto bastonato dalla vita.
Ed io ho tanto, moltissimo, per cui ringraziare uomini, animali e pure i sassi, e per cui elevare una lode al Cielo.

Nelle puntate precedenti:
> Sono un mito .0: La medicina narrativa
> Sono un mito .1: Please meet mitochondria
> Sono un mito .2: t-RNA-leu-A3243G
> Sono un mito .3: Dep 2 Death
> Sono un mito .4: Un epistolario
> Sono un mito .5: Come bambini
> Sono un mito .6: Libera
> Sono un mito .7: Attrice in erba
> Sono un mito .8: Lo stato dell’arte
> Sono un mito .9: Beata te!
> Sono un mito .10: Una rinascita
> Sono un mito .11: Paroline
> Sono un mito .12: Il rifiuto

17 pensieri riguardo “Sono un mito .13: I, spoonie.

  1. Ma quanti piatti tieni in casa? Per fortuna che fai il decluttering! 😂 Carine le conigliette, per fortuna sono dello stesso sesso altrimenti in poco tempo ti saresti trovata casa piena di cuccioli, e poi hai voglia a corrergli dietro! Bentornata, io non scrivo niente da quindici giorni ma solo per pigrizia. Almeno credo…

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    1. Ahah, ma mica ne uso uno diverso ad ogni pasto o portata! XD
      Eh sì, niente cucciolate grazie… quelle sono belline su Instagram, ma nella vita reale per accudirle ci vuole competenza e fegato, oltre che pazienza.
      Tu riposa i neuroni, che io ti attendo al varco… cazzeggiando in rete dal cellulare, sdraiata sul mio letto in ferro battuto 😉

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