Dopo oltre un anno e mezzo di pandemia, lo Stato non ha neanche provato a distinguere i morti a causa del Covid da chi è deceduto per altre malattie ed era solo un positivo: il che sarebbe stato quantomeno onesto e doveroso prima di terrorizzare, chiudere in casa e vessare con il green pass un’intera nazione.

Misure draconiane, aha
Se non esiste un limite prepariamoci a subire tutto
in nome dell’«immunità»
Le infezioni non spariranno, inutile darsi come obiettivo il contrario. Altrimenti ogni privazione di libertà verrà digerita in cambio di promesse di sicurezza.
di Francesco Borgonovo
La Verità – 4 settembre 2021
Una domanda, almeno quella, è ancora lecito -anzi, doveroso- porla: quando finirà? O, meglio: fino a dove intendono spingersi? Non pretendiamo che il governo si esibisca in improbabili vaticini rivelandoci quando il virus malevolo sparirà dalla circolazione, questo no. Però può –anzi, deve- indicarci il limite, il confine non valicabile, la soglia entro la quale non è lecito spingersi in nome della «immunità». Lo chiediamo perché alcune dichiarazioni lette e ascoltate in questi giorni fanno sorgere dubbi roventi, e perfino un filo di preoccupazione. Enrico Letta, ad esempio, ha scritto che «la sicurezza è condizione per la libertà». Dalle parti democratiche, nessuno aveva mai espresso concetti simili: non quando si discuteva di terrorismo, non quando si parlava delle conseguenze dell’immigrazione di massa. Ci hanno sempre fatto ribadito che «il rischio zero» non esiste, e dunque bisogna ospitare, accogliere e includere, incuranti delle conseguenze. Ora, invece, scopriamo che senza sicurezza non ci può essere libertà. Ed è un’idea che -calata nell’ambito sanitario -risulta a ben vedere pericolosetta, perché giustifica più o meno ogni forma di repressione e contenimento.

qual è, dunque, il limite entro cui ci si possa dire «sicuri»? La scomparsa dei contagi? La neutralizzazione del virus? Lo svuotamento totale delle terapie intensive? La sconfitta della morte? Ci sembrano tutti, allo stato attuale, obiettivi non raggiungibili. Se un vaccinato può contagiare, le infezioni non spariranno; i decessi -purtroppo- continueranno, qualche malato in ospedale ci sarà sempre. Che si intende fare, allora? Continuare all’infinito -iniezione dopo iniezione- a inseguire l’immunità d’acciaio, la protezione perenne?
qualcuno senz’altro risponderà: «Certo che sì, che male c’è? Fatte due punture non è mica un problema farsene anche una terza, una quarta e una decima». Benissimo, ma resta un piccolo problema. Ogni volta che il governo ha adottato una nuova misura di contrasto al virus, ogni volta che ha imposto una nuova restrizione o un nuovo obbligo, lo ha fatto evocando la proverbiale luce in fondo al tunnel. Passo dopo passo, siamo arrivati alle soglie dell’obbligo vaccinale, misura assai discutibile, specie se si guarda al tasso di vaccinati sul territorio italiano, alle controindicazioni per i più giovani e ai dubbi degli esperti (giuristi, filosofi ma anche medici}. Tuttavia la luce alla fine della galleria ancora non si intravede, perché spunta sempre qualche inghippo utile a giustificare un ulteriore provvedimento. Le nuove misure, infatti, non annullano mai quelle precedenti: si sommano ad esse. Le mascherine restano, il green pass resta, la possibilità di finire in zona gialla, arancione o rossa è sempre dietro l’angolo (anche perché i criteri cambiano di continuo e le terapie intensive non sono state realmente potenziate come promesso), le discoteche sono ancora chiuse, i distanziamenti rimangono obbligatori, lo spettro della didattica e distanza aleggia ancora. quando si fa notare tutto ciò, la risposta è sempre la stessa: i provvedimenti adottati non hanno fermato il virus, servono più provvedimenti. Che è un po’ come dire: la prima dose non basta, urge la seconda, ma anche quella non basta, vai con la terza…
Passano i mesi, e gli italiani -pur tra mille difficoltà e non poche proteste – insistono a compiere il loro dovere di cittadini obbedienti: si vaccinano in massa, corrono a esibire il green pass, per lo più agiscono nel rispetto delle norme. Ma la domanda è lì, senza risposta: che cosa verrà dopo? I droni nelle spiagge? Il riconoscimento facciale come in Australia? Il green pass per andare nel bagno di casa?
Ha detto bene, ieri sulla Stampa, Massimo Cacciari: bisogna che «vengano indicati con chiarezza i criteri in base ai quali verrà posto fine allo “stato di emergenza”. La decisione non può essere assunta ad libitum in base all’ennesimo Dpcm. Da decenni il Parlamento perde progressivamente di centralità e autorevolezza. È un’occasione per tentare ai invertire la deriva, non perdiamola». Se guardiamo ai dati, ci rendiamo conto che i contagi sono maggiori di quelli dell’anno scorso, le ospedalizzazioni -per fortuna al momento sotto controllo- non si sono affatto azzerate e la storiella secondo cui tutta la responsabilità sarebbe dei presunti no vax non regge: basti vedere ciò che succede altrove (in Israele, ad esempio) per rendersi conto che la pietra filosofale non ce l’hanno fornita né Astrazeneca né Pfizer né Moderna. Di fronte a ciò, i governanti rispondono con stizza, liquidano le obiezioni -col supporto della stragrande maggioranza dei media- senza fornire numeri né risposte chiare. Si limitano a dire: metteremo una nuova regolina, adattatevi. Se qualcuno alza il ditino, piovono insulti e risposte del tipo: «Pensate ai morti!». O: «Dobbiamo evitare altri lockdown!». Beh, se la reclusione domestica (inutile e forse dannosa) a cui ci hanno sottoposti è il metro di paragone, tanti saluti. Fino a quando, dunque? Fino a che punto?
Ritorniamo qui alla frase di Letta: «La sicurezza è condizione per la libertà». Tale esternazione ha una duplice lettura. La prima l’abbiamo già accennata: se la sicurezza assoluta non si può ottenere, significa che la libertà non ci sarà più restituita. La seconda lettura prevede un piccolo cambio di prospettiva. Se la sicurezza è condizione per la libertà, allora il governo dovrebbe garantircela. Invece ci impone sprezzante di non disturbare il manovratore e ci mantiene nell’incertezza. Ci costringe cioè a navigare a vista, spostando ogni volta l’asticella, comportandosi come la mamma alla guida che sbuffa: «Non scocciare, siamo quasi arrivati!». Comunque la si guardi, continuiamo a essere meno liberi di prima, sempre in balia di decisioni su cui non solo non abbiamo controllo, ma nemmeno potere di critica. Ovvio: nella Storia c’è stato anche di peggio, si sono visti regimi più brutali, persecuzioni più dolorose e umilianti a livello fisico, censure più esplicite. Da una democrazia matura, però, ci si aspetterebbe qualcosa di diverso: un limite, perlomeno.

Un limite non ci sarà mai fino a quando la maggioranza delle persone obbedisce alle follie di costoro e ne è pure contenta, o comunque non la mette in discussione anche se sotto non è d’accordo, ma “così hanno detto e così bisogna fare”.
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Naturalmente. E naturalmente il problema non è nato oggi, ha avuto un lungo tempo di gestazione e di incubazione.
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Proprio così. Il terreno è stato preparato durante gli anni precedenti.
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Decenni, direi.
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Già.
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Non sapevo nemmeno che esistesse un giornale “La verità”, titolo ambizioso, copiato da La Pravda? Il direttore è Belpietro? Di solito scappo da tutto quello che dice, stavolta mi sorprendo ad essere d’accordo. Starò invecchiando (o rimbambendo?).
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Sì, è lui. Ma l’articolo è di Borgonovo, che sicuramente apprezzo di più.
La Verità pubblica molte opinioni valide, e adesso azzardo un paragone non so quanto azzeccato, di sicuro azzardato: è quel che poteva e potrebbe essere Libero se somigliasse più ad una donna elegante anziché ad una battona che più esercita il mestiere, più si “sfianca”.
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“La sicurezza è condizione per la libertà”. È una riflessione che mi ricorda quella, simile, che ascoltai tempo fa, e che poggiava sull’aspetto economico: “un Paese con un simile debito non è un Paese libero”. Si capisce che ci sono due modi di porsi di fronte al tema della libertà. Uno è quello della libertà di fatto, in rapporto ai condizionamenti delle circostanze della vita (economiche, sanitarie, sociali, geopolitiche…). L’altro è quello della libertà di diritto, in rapporto alla legge (che può limitarla). Io penso che la frase pronunciata da Letta sia da interpretare nel primo modo, e cioè nel senso che una persona o un gruppo di persone che vivono in una condizione di scarsa sicurezza non godono di fatto di una condizione di libertà sostanziale, a prescindere dalle leggi o dal sistema giuridico nel quale ci si trova.
Non si tratta quindi di considerare, almeno in questo caso, la libertà come “ciò che ci rimane a noi poveri sudditi dopo tutti i divieti che il governo ci impone”, ma come la condizione di fatto per fare le scelte che si desiderano. Credo che Letta, in questo caso, quindi, non parlasse della libertà che si concede graziosamente al popolo, normata e limitata dalla legge, ma della libertà
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Chiedo scusa per la pubblicazione accidentale. Proseguo.
di fatto, che prescinde da specifici divieti o obblighi di legge, ma che dipende da situazioni e circostanze fattuali. Leggo, tra l’altro, nell’articolo, una insistita postura da sudditi, con un “noi parlante” messo in contrapposizione con un “loro” che domina e reprime. Una tendenza, che in questo caso ha compreso le parole di Letta, a mio avviso travisate, a oggettivizzare la politica e a considerarla la centrale del male, rinchiudendosi nella frustrazione, anziché un’attività che si può svolgere con efficacia e libertà.
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