La fabbrica dei sogni lavora solo per i gay
Disney toglie i generi dai suoi parchi giochi
Basta distinzioni: personale e artisti useranno sempre forme generiche.
Una manager: «Inserisco contenuti orno ovunque»
di Giorgio Gandola
Da: La Verità 31 marzo 2022
(…) «Non c’è più un cartello, una frase registrata, un’indicazione sulle porte dei bagni che ricordi le differenze sessuali», ha annunciato Vivian Ware, la manager all’Inclusione (lì non si fanno mancare niente) della major mondiale dei divertimenti che ha spiegato come il personale di Disneyland e Disneyworld sia stato addestrato appositamente per «eliminare dal vocabolario ragazzo e ragazza, bambino e bambina». Negli incubi queer saremo tutti indistinguibili, come Cip e Ciop.
In attesa delle targhette conio «schwa» per regolare il traffico di migliaia di persone frenate fuori dalle toilette da ingorghi e imbarazzi, va segnalato un altro capitolo vincente delle lobby omosessuali, della potente minoranza Lgbtq nell’America post-storica percorsa dal vento cortissimo dei desideri alternativi scambiati per diritti universali.
Quella della Disney è una delle risposte all’entrata in vigore di una legge dello stato della Florida che proibisce di tenere lezioni sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere dalla scuola materna alle elementari.
Il provvedimento è stato osteggiato dalle comunità transgender americane che lo hanno ribattezzato «Don’t say gay» (Non dire gay) ed hanno duramente criticato il governatore che lo ha firmato. Ron Desantis, repubblicano e fra i possibili candidati alla Casa Bianca nel 2024, ha spiegato che «la filosofia del “posso essere ciò che voglio” non è appropriata per i bambini. Ci assicureremo che i genitori possano mandare a scuola i figli per ricevere un’istruzione, non un indottrinamento».
La legge ha suscitato un’importante reazione da parte dei dipendenti Lgbtq o semplicemente dem della Disney (a Orlando lavorano 80.000 persone) che, occupandosi in massima parte dei sogni dei bambini, hanno puntato il dito accusatore sul loro amministratore delegato, Bob Chapek, colpevole di non aver protestato. Il Ceo è immediatamente rientrato nei ranghi e ha mostrato solidarietà con due provvedimenti: la svolta «gender-fluid» nei parchi a tema e l’avallo ufficiale del bacio gay in Toy Story. Lo smottamento continua e i vecchi ragazzi rischiano il mancamento perché il giocattolo Buzz Lightyear è omosessuale o almeno bisex.
La rivelazione arriva dopo quattro film d’animazione: una serie di corti, 27 anni di onorata carriera da astronauta indomito ed eterosessuale, con un motto ripetuto a nastro dai piccoli fans: «Oltre l’infinito e oltre!».
Nessuno poteva prevedere il significato di «oltre». Neppure il suo compare Woody (il cowboy) che lo ha accompagnato in ogni storia senza accorgersi di niente. Nell’ultimo film La vera storia di Buzz, l’eroe con il nome omaggio a Buzz Aldrin (il secondo uomo sulla Luna) si esibisce in un bacio gay. Alla Pixar sono stati a lungo incerti se inserire la scena, ipotizzando reazioni negative da parte di un pubblico planetario. Inizialmente era stata rimossa dopo le prime polemiche e ripensamenti, ma ora farà parte della sceneggiatura finale dell’opera.
La decisione ha suscitato le proteste di molte associazioni in difesa della famiglia a livello mondiale. In vista dell’uscita della pellicola a giugno, in Italia Pro Vita & Famiglia ha raccolto 12.000 firme, in aumento, che saranno consegnate al responsabile della Disney, Daniel Frigo. Il portavoce, Jacopo Coghe ha spiegato: «Sono migliaia i genitori scioccati dalla Disney che, su pressione delle potenti lobby omosessuali e transgender americane, ha inserito un bacio gay nel cartone animato. Vogliamo far sapere all’azienda americana il malcontento di tanti genitori che non rimangono in silenzio davanti alla strategia Lgbtq, tesa a indottrinare i loro figli. Crediamo che non sia corretto usare i cartoni animati per influenzare la mentalità dei bambini su argomenti che potrebbero traumatizzarli e confonderli».
Una sensibilità che dentro la Disney si sta affievolendo sempre più. Lo ha confermato in una riunione fra manager, organizzata proprio per contrastare la legge della Florida, il produttore esecutivo della “Dta – Disney Television Animation “, Latoya Reveneau, che ha candidamente dichiarato: «Quando arrivai in azienda ero convinta che fosse un luogo omofobo, invece ho dovuto cambiare idea. Da tempo ho implementato un’agenda gay per niente segreta da inserire negli spettacoli che produco». Per fare un esempio, ha ammesso di «aggiungere stranezze ovunque potessi, come due persone dello stesso sesso che si baciano» nelle animazioni per bambini come La Famiglia Proud. La presidente della Disney Corporate, Karey Burke, ha recentemente spiegato che la sua esperienza di madre «di un bambino trans e uno pansessuale» l’ha aiutata a capire che non ci sono abbastanza personaggi queer nei film Disney.
Lasciare i piccoli davanti alla tv rischia di diventare un problema, soprattutto in America dove il politicamente corretto dilaga e il pensiero unico domina sconfinando nel ridicolo. A Hollywood non hanno ancora metabolizzato lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock, non sanno come uscirne. Il commento di Jim Carrey è illuminante: «Ero disgustato. Io non l’avrei applaudito ma denunciato per 200 milioni di dollari. Non siamo più il club più «cool».
Il pugile Jake Paul ha proposto di uscire dal delirio con un incontro di boxe fra i due. Soluzione ponderata, meno sconvolgente di un cartone animato della Disney.

La Florida minaccia Disney nel portafogli
Mentre il colosso dell’intrattenimento osteggia la legge che impedisce l’indottrinamento gender a scuola, il governatore DeSantis contrattacca.
Nel mirino lo status speciale di cui gode il gruppo: autonomia fiscale e libertà di costruire. Sarebbe un brutto colpo
di Stefano Graziosi
Da: La Verità 3 aprile 2022
Si acuisce lo scontro tra la Florida e la Disney. Al centro della polemica è finito il disegno di legge, recentemente siglato dal governatore repubblicano Ron DeSantis, che vieta nella scuola materna ed elementare l’insegnamento di nozioni sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. La norma ha suscitato le critiche dei democratici e degli attivisti Lgbt, ma che cosa c’entra la Disney?
È presto detto. Cominciamo col ricordare che il colosso dell’intrattenimento vanta in Florida ben quattro parchi a tema, oltre a numerosi alberghi. Ebbene, nelle scorse settimane l’amministratore delegato della compagnia, Bob Chapek, era stato criticato per non essersi espresso contro il disegno di legge. Queste pressioni lo hanno quindi portato a prendere le distanze dalla misura dei repubblicani.
Inoltre, lunedì scorso, l’azienda ha emesso una nota, secondo cui la legge «non avrebbe dovuto essere approvata né firmata». «Il nostro obiettivo come azienda», si legge ancora, «è che questa legge venga abrogata dal parlamento o soppressa nei tribunali».
Non solo. Karey Burke, presidente di Disney’s General Entertainment Content, ha promesso più «inclusività», garantendo che il 50% dei personaggi Disney apparterranno a gruppi considerati sottorappresentati, mentre la manager all’inclusione ha annunciato che «non c’è più un cartello, una frase registrata, un’indicazione sulle porte dei bagni che ricordi le differenze sessuali» . Tra l’altro, durante un meeting interno dell’azienda dedicato alla discussione della legge, la produttrice esecutiva, Latoya Raveneau, ha detto di portare avanti un’«agenda gay per nulla segreta».
La replica di DeSantis non si è fatta attendere.
«La Disney è troppo coinvolta con il partito comunista cinese e ha perso qualsiasi autorità morale per dirti cosa fare», ha tuonato il governatore, facendo riferimento al fatto che il colosso ha aperto un parco a tema in Cina sei anni fa: effettivamente è un po’ strano che un’azienda tanto attenta ai diritti civili in America non si faccia scrupoli nel raggiungere accordi con un regime che sta perseguitando gli uiguri nello Xinjiang e smantellando la democrazia a Hong Kong. Ma DeSantis è andato oltre. Nelle scorse ore, è infatti trapelata la notizia secondo cui avrebbe intenzione di revocare alla Disney lo status speciale di cui gode in Florida dal 1967.
Come riferito dal New York Post, quell’anno «la Florida ha creato il Reedy Creek Inprovement District», un’entità di governo semi-privata e indipendente controllata dalla Disney. Ha dato alla società il potere di approvare progetti di costruzione per i suoi parchi a tema, nonché di costruire e gestire le infrastrutture necessarie per supportare le sue operazioni.
Non solo: questo distretto è stato anche autorizzato a riscuotere le proprie tasse e quindi a usare tali entrate per realizzare servizi pubblici, oltre a mantenere le infrastrutture. Se DeSantis dovesse quindi riuscire ad abrogare lo status, le proprietà locali della Disney finirebbero sotto il controllo delle contee di Grange e Osceola. «La Disney ha allontanato molte persone ora», ha detto il governatore, «e dunque l’influenza politica che sono abituati a esercitare penso si sia dissipata. E quindi la domanda è: perché vorreste avere dei privilegi speciali?»
A scanso di equivoci – e checché ne dica qualcuno – la posizione del governatore in questa vicenda non è contro gli omosessuali, ma contro l’indottrinamento ideologico dei bambini. DeSantis ha del resto sostenuto in passato provvedimenti che contrastano l’insegnamento nelle scuole della Critical Race Theory: un insieme, di teorie sociologiche che mira a reinterpretare la storia secondo le categorie dell’oppressione razziale. Tra l’altro, ricordiamo che una delle ragioni per cui i dem hanno perso le ultime elezioni governatoriali in Virginia a novembre scorso era da ricercarsi proprio nel loro sostegno a questo tipo di indottrinamento scolastico.
Inoltre, ci sia consentita una domanda: ma che diritto ha un colosso privato di mettere becco in una legge che, piaccia o meno, è stata approvata da un parlamento statale? Si tratta di una dinamica preoccupante che era già emersa l’anno scorso, quando alcune grandi aziende americane avevano boicottato lo Stato della Georgia a causa di una riforma elettorale non gradita al mondo liberal.
Il peso delle big corporation si sta facendo sempre più forte sulla politica americana, senza poi trascurare il problema delle porte girevoli con il Partito democratico. Si pensi solo a potentati come la Silicon Valley (che sono stati non a caso messi nel mirino da DeSantis l’anno scorso). A ottobre 2020 Facebook bloccò – in piena campagna elettorale – la condivisione social degli scoop del New York Post sui controversi affari di Hunter Biden, e il mese successivo Joe Biden assunse nel suo team di transizione presidenziale alcuni ex dirigenti della stessa Facebook. E’ normale una cosa del genere…?

https://citizengo.org/it/fm/207343-disney-smettila-di-promuovere-il-gender-e-lagenda-lgbtq-nei-film-bambini
https://www.tempi.it/woke-disney-lgbt/
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