Tre vittime per nessun colpevole

Il razzismo mi urta. Mi schifa. Lo sa bene chi ho più vicino – non perdono a nessuno, posso convincermi nel tempo che non si tratti esattamente di razzismo, posso sopportarlo, ma ignorarlo no; a volte questo ha comportato, purtroppo, un allontanamento. Rari sono i casi in cui condivido il giudizio di altri sul comportamento di uno straniero.
Per l’ambulante ucciso a Civitanova Marche, Alika, provo dispiacere e pietà.
Per la moglie, che sostiene essere stato preso di mira in quanto di colore? Anche no. Esattamente come per l’egiziano (uno su mille ce la fa, a farsi detestare) che la scorsa settimana ha prima accusato una collega che ha staccato e se n’è andata a farsi i fatti suoi di essere maleducata e razzista perché non ha risposto al saluto, e poi piantato una grana – con tanto di avvocato di mezzo – per ottenere ciò che voleva, gli spettasse o meno.
A questo giro, con tutto il dispiacere sincero per il morto, l’opzione razzismo non sta in piedi e non la voglio sentire nemmeno in modalità condizionale: la vittima è stata casuale. Se pure l’aggressore, Ferlazzo, razzista lo fosse davvero, ciò non avrebbe alcun significato nell’episodio.
Inoltre, incredibilmente, per una volta le scuse che quest’ultimo ha porto non mi arrivano e non mi suonano studiate, mirate a suscitare compassione, proferite a propria discolpa nella consapevolezza che, invece, la colpa c’è eccome e semplicemente non si vuole farsene carico.

Su Facebook ho bloccato (subito, prima di discuterne) una persona che suggeriva nientemeno che il carcere a vita, “altro che San’Egidio che poi escono per buona condotta”.
Al di là della confusione sul tema, e senza nulla togliere alla gravità del fatto, questa insana voglia di attribuire arbitrariamente sanzioni e pene non la tollero. Giustizialismo e garantismo non sono necessariamente antitetici, per quanto mi riguarda vorrei giustizia per l’azione commessa e l’esito nefasto che ha avuto, ma nondimeno le piene garanzie di ascolto, di corretta valutazione della consapevolezza e della capacità di controllo dell’aggressore nel momento del fatto, di supporto clinico riabilitativo e non solo di sconto della pena.
Perché, se non si è ignoranti (ignoranti del mondo della vita e dei suoi casi ed aspetti anche feroci, realmente e non per modo di dire), oppure in malafede, non si può non ravvisare nelle esternazioni immediate di Ferlazzo una realtà nient’affatto montata ad arte, una spiegazione troppo puntuale, rafforzata da eventi passati e infine lanciata come un grido – non dico di aiuto, ma di richiamo – nell’aria, priva dei tentativi di particolareggiare e approfondire la propria interiorità di chi vuole “farsi pazzo”, ben lungi dall’esserlo.

Per questo, perché i famigerati raptus e più in generale l’infermità mentale esistono a dispetto di qualsiasi abuso se ne faccia, e perché la vicenda mi riguarda in certo senso direttamente.
Quell’uomo in fondo sono io.
Sono io che, al netto del carattere e a prescindere dalla ragione più forte che mi ha portato a svilupparla (un meccanismo preciso della patologia rara dentro di me, o più probabilmente il peso della stessa in famiglia, il modo in cui ha deformato e condizionato il mio ambiente e la mia psiche sin dall’infanzia, o ancora un tratto psichico preesistente, che avrebbe agito indipendentemente da tutto quanto), ho integrato nella mia indole un’aggressività abbastanza costante, non del tutto sotto controllo e attivabile facilmente con determinati stimoli, da venire certificata come diagnosi e fare massa per l’attribuzione dell’invalidità civile – lo specifico, questo, proprio perché anche nel caso di cronaca di cui parliamo la cosa non nasce dal nulla, ma è nota ed ha effetti concreti.
La mia aggressività, pure. Non è mero stress nervoso che logora me e basta.
Fa anche quello, certo, ma – fermo restando che di tutto questo ho una responsabilità innegabile, ma parziale – porta come più specifiche e complesse conseguenze problemi comportamentali:

  • mia madre con un femore rotto, caduta per sbaglio a causa di una spinta che le diedi non per sbaglio (episodio non banale, la colpa era di nessuna e la responsabilità di entrambe);
  • mia nonna strattonata e sgridata senza colpa;
  • uno schiaffo ad un’amica (non ho mai capito davvero se ero lucida, fredda come credevo oppure no);
  • più di un animale trattenuto a forza, con suo relativo spavento, quando di farsi toccare non ne voleva sapere (e la frustrazione cresceva, col rischio serio di ulteriori gesti impulsivi);
  • oggetti rotti con l’intenzione di evitare di picchiare la persona che avevo davanti;
  • fughe precipitose da casa per evitare il peggio, cioè di concretizzare fantasie vendicative che includono, sì, la morte…
  • … altrui o anche mia: una volta uscita, diverse volte mi è capitata la tentazione di sterzare di colpo e buttarmi addosso ad un albero, una spalletta, un muro.

Capite bene come io sia sensibile alle molteplici questioni che si intrecciano in casi simili, pur mantenendo una quota di razionalità ineliminabile piuttosto alta per la media.
Può ben darsi che insieme all’istanza sociale ben definita e salda si mescoli – dopotutto sussiste – il bisogno di giustificarmi, di fare ammenda. Al cuore delle cose: di essere perdonata, riaccolta, amata anche dopo e nonostante questo liquame che so produrre, perché so di essere una persona radicalmente buona, ma al tempo stesso radicalmente offesa dalla vita e dal caso, inevitabilmente umana e non solo corrotta perché tale, ma persino rotta in un ganglio vitale.
E’ sicuramente così, ma non dimenticatevi delle vittime.
‘Ché tali sono, non soltanto Alika ma anche Filippo.
Sì, anche se aveva rifiutato, prima e forse in seguito al TSO, determinate cure; e chi lo sa: di essere medicalizzato, ospedalizzato, forzato in un percorso che è di sostegno ma nondimeno e più spesso di catene e soprusi.
La terza vittima la uccide chiunque interpreta la vicenda schematicamente, avvalendosi di concetti stereotipati oggi più che mai inadatti. Si chiama verità dei fatti.

16 pensieri riguardo “Tre vittime per nessun colpevole

  1. Il tuo articolo è molto bello e ne colgo anche una sofferenza, quasi una paura che tu ti possa “sfuggire di mano”… non ho seguito molto la vicenda, mi è dispiaciuto che sia successo nelle Marche, a pochi chilometri dal mio paese, e dove sembra che di episodi di violenze contro i neri si ripetano. Sì può escludere però il razzismo, al di là di tutti i problemi che aveva l’assassino? Avrebbe fatto la stessa cosa a un bianco? Voglio dire, può essere che alcune sue convinzioni estreme abbiano contribuito a incanalare la sua rabbia verso un innocente, e non il primo che passa ma uno nero? Non sarebbe da escludere, secondo me…

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    1. Sì, ci ho pensato anch’io.
      Ma se sono così categorica in merito è perché ritengo che, se pure il fattore razzismo avesse giocato un ruolo, quest’ultimo sarebbe comunque marginale e non decisivo.
      Ossia: trovandosi davanti un nero, se il tipo è razzista, ha certamente una spinta ulteriore alla propria rabbia che va a rinfocolare la sua reazione. Naturalmente.
      Però, se i disturbi psichici non gli avessero innescato quella reazione primaria spropositata, e impedito di averne il controllo, avrebbe potuto picchiarlo senza ucciderlo. Avrebbe compiuto un gesto, se non premeditato, più ponderato (gli assassini di Willy sono stati identificati, ma hanno agito di sera, forti della propria nomea e non certo a braccetto della fidanzata, in pieno centro e pieno giorno).
      Insomma se al posto di Alika ci fosse stato un bianco forse Ferlazzo non avrebbe raggiunto lo stesso grado di furia, ma senza differenze apprezzabili nel risultato: non immaginiamoci che si sarebbe trattenuto ed accontentato di un vaffanculo o un pugno…

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        1. Anche qui, troppe voci, alcune in contraddizione.
          E ovviamente più passano le ore più emergono dettagli che, però, al momento non me la sento di approfondire più di tanto.
          Certo a volte penso che “intervenire” può voler dire molte cose, e non per forza entrare di persona nella mischia!

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        2. … per esempio, ora che giro col bastone qualche colpo (al limite tirandolo da distanza di sicurezza) vuoi che non mi riuscisse di menarlo?

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    2. p.s.: sì, mi sa che la sofferenza ed il timore sono evidenti.
      Non sono graziaddio mai scivolata in episodi così gravi, ma lo ripeto con una terribile sicurezza: sono stata graziata, e fortunata.
      Potevo, eccome.
      La paura, anche se latente, ed il senso di colpa si son costruiti il loro nido.
      A monte, prima di qualsiasi altro elemento, c’è l’inesausta rabbia verso la mia famiglia materna e la mia stessa madre, giudicante e svalutante, troppo diversa da me e addirittura estranea, aliena.
      (Scusa, Mamma. Tu sei stata molte cose diverse, alcune meravigliose e che amerò sempre. Ma, volente o nolente, seppure non consapevole, sei stata anche questo).

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  2. Tu dici che non c’entra il razzismo? Forse hai ragione per quanto riguarda il pazzo assassino, che avrebbe fatto la stessa cosa anche ad un’altra vittima. Però prova ad immaginare una scena diversa: c’è un uomo di colore che senza motivo aggredisce un povero disabile bianco. Siamo sicuri che chi stava lì intorno si sarebbe limitato a filmare la scena coi telefonini? Io credo di no. È lì che ci vedo una componente di pregiudizio razziale

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    1. Uhm, onestamente non mi associo a chi lamenta l’indifferenza (in questo specifico caso, intendo, perché purtroppo ne circola in abbondanza); perché almeno secondo le parole dell’uomo intervenuto lui era l’unico in grado di farlo senza rischi eccessivi. Altri dicono diversamente, e già qui mi fermo, le supposizioni diventano inutili.
      Posso sicuramente fare un appunto sulla persona che ha ripreso la scena: non sapendo di chi si tratti e in che situazione fosse, evito di definirla vigliacca e vouyer, e ipotizzo (dipende da caso a caso) che almeno, filmando e non potendo fare altro, abbia contribuito alle indagini.

      Per il caso inverso che citi, non lo escludo a livello teorico, ma non ne sono affatto sicura.
      Anche perché le astrazioni hanno senso fino ad un certo punto; ed accostarle ad una vicenda reale non fa che appannarla e sviare la riflessione.
      È un buon esercizio solo se il “caso inverso” proposto è anch’esso concretamente avvenuto: come per esempio – colgo un suggerimento – quello del cinese ucciso a martellate dal nigeriano proprio negli ultimi giorni.
      Non va bene perché il cinese è comunque straniero? Allora quale paragone migliore di Pamela Mastropietro, italiana uccisa da nigeriani? Pare che Letta abbia dichiarato di voler partecipare ai funerali di Alika. Ma a quelli di Pamela c’era? No.
      Qualcuno ha forse tentato di bloccare un altro martellatore, quello famosissimo che girava a Milano e di cui s’è parlato per anni (non riesco a ricordare il nome)?
      Basta sfogliare un quotidiano per trovare l’episodio che si presta alla tesi e fare centro.

      Infine, più che un pregiudizio eminentemente razziale, mi aspetto che intervenga un pregiudizio di altro tipo: quello della persona disagiata-sradicata, che in quanto tale può anche essere onesta e buona ma presenta un potenziale di incertezza e pericolosità che può consigliare di non averci a che fare, né con l’interessato né con chi ci si scontra (a sua volta pericoloso!). Questo però è un pre-giudizio:
      ° salutare, necessario, di valutazione dello scenario e salvaguardia di sé;
      ° non applicabile al caso di Alika, che invece era conosciuto, non emarginato e marginale.

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