Di orsi e mammut

Come ho avuto modo di mostrarvi, nell’ultimo mese mi sono tuffata in un’ennesima fase di decluttering massivo, una vera e propria maratona; ora passata dalla casa e dal garage alla cantina, il locale senza dubbio più intasato, ingombro, abbandonato e meno curato.
Prima di andare avanti però voglio spendere due parole su questi oggetti, dei pelouche, scartati ma non buttati, ed anzi donati al solito negozio della solita rete di economia solidale che so li tratterà col garbo e l’attenzione che meritano.

C’è l’orso che regalarono a mio fratello nella struttura sanitaria residenziale dove ha vissuto il suo ultimo anno di vita: non ha nome, è molto bello e dolce, dall’aria persino troppo docile e delicata proprio come lo fu lui.
Ho fatto fatica a separarmene, ci sono voluti anni, e so che di tanto in tanto una vocina mi rimprovererà per averlo fatto. Ma il doloroso pungolo emotivo non può, purtroppo, modificare in alcun modo un fatto straziante, quello che realmente non mi ha finora permesso di lasciar andare l’orsacchiotto, ed il fatto è questo: che l’orso non è mio fratello, e lui nessuno, se non Dio in avvenire, me lo ridarà. Posso aggrapparmi con le unghie ad ogni scampolo di ciò che lui ha toccato, posseduto, a volte amato in questo mondo; ma non è lì che lo troverò.
Cristo, se mi manca.

Poi c’è Manfred. Il mammut.
E’ appunto un piccolo mammut che acquistammo, io e mio papà, l’ultima volta che andammo a Gardaland insieme (iniziativa già di per sé piuttosto tragica, dacché fu come scalzare la terra su una vecchia tomba ed andare a disturbare i morti).
Ebbene, Manfred (che chiamai così rifacendomi al film L’era glaciale) fu la ciliegina sulla torta dei sentimenti inespressi – o espressi ma mai pienamente assimilati – che quel giorno emersero in un’eruzione che ancora oggi mi brucia.
Perché era dolce. Era indifeso. Era piccino. E soprattutto, era disabile – sì, così lo definii subito e così lo percepisco tutt’ora. Sul momento non me ne accorsi, ma poi venne fuori che aveva una zanna che sparava all’infuori, storta.
Non vi dico la tragedia. Ne ho fatto seduta stante un’incarnazione di mio fratello (aridaje), e ovviamente, anche se avrei potuto tornare indietro di pochi passi e sostituirlo, non lo feci. Scherziamo? Non solo l’avrei abbandonato ad un destino triste, magari addirittura gettato via o comunque trattato male (per me, che ormai l’avevo conosciuto, creato, gli avevo dato un’anima; era una persona a tutto tondo. Proprio come da piccola tremavo all’idea di scartare i cioccolatini di Santa Lucia, perché l’incarto riproduceva una coccinella ed io sentivo, stracciandolo, di ucciderla). Non solo, dicevo, ma rifiutando lui avrei rifiutato mio fratello stesso; quello vero, quello (non più) vivo. Non sono mai riuscita ad accettarlo fino in fondo, nonostante tutti gli sforzi, ma rifiutarlo attivamente è un’altra cosa: questa no, mi avrebbe distrutto.
E così, insomma, Manfred detto Manny è venuto a casa con noi. Sollievo per la scelta, strazio eterno per la sorte che me l’ha messo davanti.
Come per l’orso, darlo via a questo punto non mi è riuscito per anni – sarebbe equivalso ad un tradimento. Una fatica dannata per superare l’impasse. Eppure, quando finalmente ci sono arrivata, ho avuto un’incredibile sorpresa: Manfred è guarito! Immagino che, dopo anni con lo spillo dalla capocchia bianca come la sua zanna infilato nella stoffa a mo’ di stecca, quella gli si sia raddrizzata in via definitiva.
Non ancora un corpo glorioso, intatto e non soggetto al decadimento della materia, ma sicuramente un segno. Quando sarà, ritroverò il mio fratellone sereno; ed integro nelle sue facoltà fisiche e cognitive. Ora Manfred è libero, avrà nuove avventure. E io potrò ricordarlo senza sprofondare nella sofferenza.

Bene! Ora, chi altro c’è?
Rispondono all’appello – e restano con me – le Tarte di nonna (figlie di una Tarta più grande, nella cui pancia si raccolgono) e Magilla Gorilla, da una zia sempre paterna.
Il pupazzetto-clown riempito di sabbia, invece, è l’unico di cui mi sono disfata e che è finito nei sacchi neri (non ne sono pentita. Ma all’alba dei 38 anni resto ancora una sentimentale, incastrata in meccanismi infantili che mi fanno sudare sangue). La difficoltà stava nel fatto in sé che si trattava d’un ricordo d’infanzia, a prescindere dalla connotazione non felice dello stesso: infatti l’ho sempre trovato inquietante, nel senso più classico del perturbante freudiano ma anche perché gli attribuivo un che di malevolo. Non sarei stata capace lo stesso, credo, di eliminarlo, se prima non l’avessi almeno fotografato. Un gesto catartico ed uno conservativo.

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