Dopo aver terminato questo blocco di letture, nel quale ho avuto la prontezza di infilare un paio di gialli, sarà bene che mi risolva ad orientarmi, almeno per dicembre / gennaio, su titoli leggeri. Niente attualità, niente cronaca nera, niente inchieste.
In modi diversi, il tomone di Vittoriana Abate – contro-inchiesta relativa al naufragio della Costa Concordia, con una massiccia presenza di interventi di Schettino – ed il reportage di Valentina Petrini sull’Ilva di Taranto mi stanno dando parecchi mal di stomaco.
Giornaliste entrambe (anche televisive: la prima per Porta a Porta, la seconda prevalentemente su La7), non è che mi abbiano soddisfatto granché per stile. Troppo defilata una, con una maldestra pretesa di neutralità – che per me coincide con tiepidezza e volontà di non scontentare nessuno – l’altra. Se la Abate mi fa mancare qualcosa (una guida evidente al discorso e la capacità di sistematizzare i dati agevolando il lettore, che pure non è del tutto assente e chiede a quest’ultimo di trarre conclusioni da sé), è però la Petrini che mi sta lasciando più disturbata, e mi porta col suo atteggiamento di improprio ed inopportuno distacco a valutare meno positivamente il suo lavoro.
Ho ordinato in biblioteca Il cielo oltre le polveri: storie, tragedie e menzogne sull’Ilva perché un assessore, un paio di settimane fa, ha chiesto alle colleghe di portineria di rilegare un mattone di fogli A4 con listello e copertina trasparente. Ho pensato si trattasse di una tesina, ma controllando i fogli ho visto che si trattava d’un libro edito. Ovviamente l’argomento mi ha subito fatto venire voglia, ed ho avuto la fortuna di rintracciarlo sull’OPAC.
Ma è doloroso leggere, per quanto scorrevole sia il testo e per quanto mi spinga a divorarlo. E’ l’ennesima controprova, di cui non sento più ormai la necessità, della miseria umana, dell’inaffidabilità delle istituzioni tutte, della rovina in cui sono cadute anche quelle che un tempo, se non valide senza riserve, almeno avevano un senso (leggi: sindacati, ma è solo un esempio).
L’enormità delle storie (danneggiamento ambientale, malattie respiratorie e tumori come se piovessero, infortuni e morti sul lavoro atroci) e la limpida evidenza della causa primaria che tutte le accomuna (l’indifferenza, la negligenza di chi ha responsabilità in azienda e nello Stato, con rare eccezioni che vedono protagonisti sempre i piccoli, mai i vertici, la cattiveria e pochezza umane) non possono che colpire duro.
Oltre a questa fatica oggettiva, comune a tutte le persone di buon cuore e di buon senso i più elementari, sto vivendo in aggiunta il peso (inevitabile) di immaginare come potrei mai sopravvivere a sofferenze tali, che già solo a leggerne mi ricordano da vicino cose troppo simili o comunque vicine a quelle vissute, a quelle temute in quanto rischi reali che nessuno o quasi giudica e soppesa in maniera adeguata. E poi, soprattutto, mi suscitano il terrore, ed il dolore anticipatorio, di tante altre cose che potrebbero succedere.
La lenta, articolata e difficile ricostruzione del naufragio tocca corde meno vibranti, che risuonano sulla frequenza lenta e rabbiosa dell’infrarosso più che su quella rapida, palpitante e angosciante dell’ultravioletto.
Che qualcosa non tornasse lo sentivo già da prima, leggendo Trincia: a mio avviso, a prescindere dalle responsabilità di Schettino che davo per scontate in quanto comandante (ed anche fuorviata in modo eclatante dalla narrazione mediatica, tanto ficcante quanto superficiale), vi erano una moltitudine di persone con qualifiche e ruoli i più diversi dalle responsabilità gravi a dir poco, che erano state rappresentate con molto pathos ed altrettanta, inspiegabile ed ingiustificabile indulgenza.
Una sensazione molto netta, la quale però non mi rende particolarmente intuitiva o, al contrario, diffidente all’eccesso. Tant’è vero che, come ripeto, nonostante la mia naturale attitudine da avvocato del diavolo in questi dieci anni mai ho messo in questione, fosse pure solo con me stessa, l’idea che la grossa vaccata l’avesse fatta Schettino, e mettendo mano al suo libro, pur curiosa, mantenevo un certo disagio.
Tanto vale che lo dica senza mezzi termini: non ci credo più.
Senza arrivare a farne un santo, trovo che Schettino sia stato una vittima, seppure molto diversa dalle altre 32; di quel “processo mediatico” per il quale si è rivolto alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Il suo ricorso è stato prevedibilmente rigettato, ma io credo che la vera giustizia dovrebbe venire non da lì, bensì dai familiari delle vittime (ma anche dei sopravvissuti). I quali come minimo dovrebbero rivoltarsi contro due cose:
la gravissima carenza di professionalità di un intero equipaggio, sostenuta dall’indifferenza di Costa che evidentemente come qualunque azienda media mira al profitto e gioca al risparmio, carenza evidenziata con grande facilità da Schettino stesso che di fatto si trova a lottare contro un intero sistema che rema contro una gestione assennata;
orrendo a dirsi, la superficialità, di nuovo la scarsa professionalità (e forse a qualche leguleio navigato questa parola farà venir da ridere, accostata all’esercizio di un mestiere quanto mai corrotto e ridotto a farisaico burocrantato) del sistema giudiziario, che va avanti a tastoni su faccende che non comprende nemmeno lontanamente ed a suon di perizie cui basta una parvenza di competenza per qualificarsi come valide, decisive e degne di ogni onore. Uno stato delle cose che, purtroppo o per fortuna, non ho avuto modo di toccare con mano fino al 2018, anno in cui sono stata aggredita (una vicenda piccola, tutt’ora in corso, ma sufficiente a svelare alla più candida delle menti quanta banalità del male anche un tribunale, supremo esempio di correttezza, incarni).
Ora devo capire se effettivamente l’ex-comandante si trovi ancora a Rebibbia, o se nel frattempo la richiesta di conversione della pena restante in misure alternative sia stata accolta. Perché ho intenzione di scrivergli.

Ora che ho terminato il libro della Petrini su Taranto e l’Ilva, ci tengo a precisare che la brutta sensazione di distacco percepita fino ad oltre metà del testo si è poi discretamente stemperata, in particolare nella parte finale dedicata alle questioni giudiziarie più tecniche.
"Mi piace""Mi piace"
Mi piacciono varie cose, tra le quali i riferimenti agli effetti psicologici che le letture, a seconda della “leggerezza” o della “pesantezza”, possono produrre sul lettore, e la ricerca dell’approfondimento dei fatti rispetto alla narrazione semplificata che il sistema mediatico normalmente ci propone. Concordo sulla necessità di equilibrare il pesante col leggero, perché non dobbiamo farci del male da soli, conoscendo gli effetti che le cose fanno su di noi. In famiglia ho chi chiede di non guardare il tg perché produce ansia e disgusto. E ammiro lo spirito di ricerca e di approfondimento. La disonestà del “sistema mediatico” non la do per scontata, quanto invece una superficialità di vario grado che l’informazione generalista si porta addosso come una fatalità, e dalla quale i bravi giornalisti fanno bene a distinguersi, anche con le inchieste come quelle dei tuoi libri.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Comprendo la richiesta di evitare i tg, io li ho praticamente abbandonati (la sera su RaiTre me ne valgo per ascoltare i titoli e come sottofondo “rassicurante”, un po’ come le cronache sportive, proprio perché per me non hanno più alcun senso: altro che disgusto, li trovo semplicemente vuoti).
Ciò mi scoccia anche di più perché ritengo che, ovviamente a modo suo, la televisione abbia la potenzialità di produrre programmi di approfondimento coi controcazzi, e bando all’altezzoso senso di superiorità dei letterati. Invece, ahinoi, non lo fa. I libri, i saggi, i reportage, le inchieste purché scritte, non hanno rivali nel piccolo schermo (tutt’al più ce l’hanno nel piccolissimo, cioè nella rete).
"Mi piace"Piace a 1 persona
(Con la differenza che, nella rete, è più difficile discriminare il valore delle cose).
"Mi piace"Piace a 1 persona
Incomparabilmente più difficile.
"Mi piace"Piace a 2 people