A Dio, Ratzi

Wojtyla fu, per lo più, il papa di mio fratello. Durante il suo pontificato io fui bambina e poi ragazza, nel primo periodo trovandolo rassicurante ma non potendo apprezzare il suo modo d’essere e pensare in misura meno che superficiale, nel secondo essendo ormai troppo distante dalla Chiesa e persino, a lungo, fuoriuscita.
Ratzinger invece era destino che incarnasse l’ideale del mio ritorno: se si torna a casa, deve valerne la pena; se all’epoca fosse stato Papa Bergoglio nell’ovile ci sarei tornata (poiché se la Chiesa è madre, padre è il Signore, non il pontefice per quanto Suo rappresentante), ma probabilmente non sarei rimasta nella calca centrale con tutte le sue varietà di approcci: per contrappeso mi sarei rincantucciata in un angolo con Lefebvre e buonanotte alla scoperta di una casa in cui siamo fratelli seppure diversi, anche diversissimi, ma radicati in Uno.
Così, al solito, nei piani divini tout se tient.
Ora la nuova epoca entrerà nel vivo, ma noi avremo un santo in più (‘ché della santità del Ratzi non dubito) a cui appoggiarci ed a cui rivolgere le nostre preghiere.

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3 pensieri riguardo “A Dio, Ratzi

  1. https://leonardolugaresi.wordpress.com/2022/12/31/il-papa-che-non-abbiamo-meritato/

    Penso che Joseph Ratzinger, durante la sua lunga esistenza terrena, nelle grandi scelte della vita abbia sempre obbedito al Signore. (Non c’è lode più grande di questa, che si possa tributare ad un uomo nel momento della sua dipartita).

    Obbedì lietamente da ragazzo, quando Dio lo chiamò al sacerdozio. Obbedì da giovane, assecondando al meglio la sua naturale vocazione agli studi – e fu quella probabilmente l’obbedienza più facile e gradita: divenne teologo (che è un gran titolo, quando è dato con ragione!). Obbedì, nella maturità, quando Dio, per mezzo di un papa, lo volle arcivescovo, a capo di una grande diocesi tedesca. Solo la miserabile stoltezza dei suoi detrattori poté allora pensare che “avesse fatto carriera”, quando è evidente a chiunque abbia un po’ di cervello quanto migliore e più comoda e più ricca di soddisfazioni sia la cattedra del professore rispetto a quella del vescovo (soprattutto nel Novecento avanzato, e in Germania poi!).

    Ubbidì ancora, pochi anni dopo, quando un altro papa, ispirato da Dio, lo chiamò a Roma a fare da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (il che voleva dire lasciare la Baviera, suo fratello e sua sorella, i suoi amici …). Continuò a ubbidire, servendo quel papa come meglio non si poteva: sempre amico, sempre fedele, totalmente leale anche nel manifestargli con la dovuta discrezione il suo dissenso, le rare volte che non ne condivise le scelte (come nel caso della suggestiva ma incauta manifestazione “interreligiosa” di Assisi). Lo fece anche quando, raggiunta “l’età della pensione”, espresse più volte il desiderio di tornare a casa sua a fare ciò per cui era nato, cioè studiare, pensare, scrivere, insegnare. Gli fu detto invece di stare al suo posto, e ubbidì.

    Poi venne il giorno della suprema obbedienza, la più sofferta e dolorosa di tutte, quando «i signori cardinali» scelsero lui, «semplice operaio della vigna del Signore», per succedere a quell’altro grande papa. Parliamoci chiaro, ora che è morto: sapeva benissimo che c’erano altri piani (oggi anche noi profani siamo venuti a sapere della “mafia di San Gallo” e delle sue trame); che non doveva essere lui l’eletto; sapeva anche perfettamente di non essere adatto al compito. Soprattutto, conosceva a sufficienza il male e il marcio che si annidava nella santa chiesa. Noi, ignari come bambini, potevamo anche essere affascinati fino allo stordimento dallo spettacolo mai visto di quel trionfo che fu il funerale di Giovanni Paolo II: tutto il mondo, con tutti i suoi capi in testa, riunito in piazza San Pietro a rendere omaggio all’uomo più grande di tutti, in una cerimonia che sembrò avere la regia dello Spirito Santo in persona, tanto fu bella; il più grande raduno della storia (quanti erano: un milione, due milioni?). Noi vedevamo solo quello; lui poche settimane prima, facendo la Via Crucis al posto del papa ormai agonizzante, lasciò trapelare un’altra verità: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui!». Sapeva tutto, eppure ubbidì. Ci chiese una cosa sola, e fu strano udirla da un papa appena eletto: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi». L’abbiamo fatto? L’abbiamo fatto abbastanza?

    Ora che è morto, dobbiamo parlar chiaro: gli otto anni che seguirono sono stati quelli di uno dei pontificati più grandi e più tragici dell’intera storia della chiesa. Uno dei più grandi, perché raramente c’è stato, dalla cattedra di Pietro, un magistero così alto, profondo e persuasivo nella sua sublime intelligenza del mistero cristiano. Benedetto XVI va annoverato, sotto questo profilo, tra quei Padri della Chiesa che egli ha tanto amato. Ma anche uno dei più tragici, perché – al netto dei molti errori di governo che da uomo inadatto al governo egli compì, primo fra tutti la scelta infelicissima del segretario di stato – la questione che quel pontificato pone alle nostre coscienze, e che oggi dovrebbe bruciarci!, è semplice e tremenda: lui nella sua vita ha sempre ubbidito, ma noi, quando a lui è toccato di fare il papa, noi gli abbiamo ubbidito? C’è una sola risposta onesta: no. È inutile, ed anche un po’ squallido, edulcorare ora, negli elogi funebri, la tragicità di quella scelta. Molto meglio stare di fronte, con serietà, al fallimento, e alla nostra responsabilità, per trarne un insegnamento.

    Il curriculum dell’uomo e le circostanze della rinuncia ci obbligano, in coscienza, a ritenere che anch’essa sia stata un atto di obbedienza e non di viltà. Quando decise di deporre un peso divenuto insopportabile per le sue forze (non solo fisiche, non solo fisiche, ma anche e soprattutto morali!) – compiendo un atto che, con il senno di poi, a tanti di noi è sembrato improvvido – Benedetto XVI lo fece per ubbidire: alla sua coscienza, innanzitutto, che è il tempio sacro dell’umana libertà in cui Dio parla all’anima dell’uomo. Pensò, sbagliando, che dopo di lui sarebbe venuto un papa che avrebbe continuato, con più forze e maggiori capacità di governo, il lavoro avviato con tanta fatica e così scarsi risultati. Come sappiamo, non è stato così.

    Alla morte del padre, succede sempre che i figli si rendono conto di non aver corrisposto abbastanza, finché egli era in vita, al dono della sua presenza. Sempre si dicono: “ah, se gli avessi parlato di più, se avessi passato più tempo in sua compagnia, se avessi chiesto o dato più peso al suo consiglio …”. C’è un senso, in un fenomeno così ricorrente da risultare quasi una costante del comportamento umano: il padre che scopriamo di non aver meritato quando era vivo, possiamo cominciare a “meritarcelo” dopo la morte; e questo è, per molti, il solo modo di diventare finalmente adulti. Il pontificato di Benedetto XVI noi cattolici, nell’insieme, non ce lo siamo meritato – (e Dio ha provveduto di conseguenza) – ma il tesoro del suo magistero è qui, a portata di mano. Usarlo è il primo modo di riscattare ora ciò che abbiamo lasciarto cadere così stoltamente allora. (Per quanto mi riguarda, oggi su consiglio di un lettore di questo blog, ho ripreso in mano la Spe salvi).

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