In montagna .3: Vajont, di Renzo Martinelli

Mi è sembrato un buon film, non ottimo, ma decisamente buono (mi è piaciuto sicuramente più che all’Arrotino).
Poteva risultare più profondo, laddove con questo aggettivo si intenda drammatico, emozionalmente coinvolto, impegnativo? Sì, ma ciò non significa che sia superficiale o banale. In compenso, proprio per la capacità di raggiungere pubblici diversi, più e meno esigenti, più e meno intuitivi, è perfetto per il grande schermo (non so se nel 2001, anno dell’uscita, abbia avuto successo al botteghino, ma ha senz’altro le carte in regola).
Lo è nondimeno nei suoi singoli elementi, che ben si sposano: una fotografia pulita e brillante, da rivista patinata; una colonna sonora piuttosto intensa ed originale, molto adeguata al contesto, seppure con qualche stacco troppo netto tra le musiche e le singole canzoni (una è cantata dal riconoscibile Bocelli); una sceneggiatura piana, chiara ed incisiva che tuttavia non si fa mancare battute e personaggi memorabili, che sullo sfondo d’un altro scenario avrebbero forse rischiato di diventar macchiette, ma che qui al contrario restano imbrigliati e credibili, significativi.

C’è il nonno d’una famigliola che rifiuta di andarsene dalla propria casa, in opposizione alla costruzione della diga fatale, pur nella consapevolezza che questo decreterà la sua fine. Meglio la fine del mondo, del suo mondo, che vivere in una realtà privata di ogni radice e sentimento di comunità.
Ci sono, ovviamente, i dirigenti statali e quelli dell’azienda costruttrice, la Sade, che avevo conosciuto nel fumetto.
C’è, anche, non meno vera di quella del vecchio testardo e attaccato alla vita di sempre, al netto di leggerissime licenze – ed entrambe narrate già altrove, nel libro di Corona, il quale per inciso compare in questa pellicola – una storia d’amore dal finale tragico: quella tra un geometra impiegato proprio alla diga, che perderà fiducia nel progetto e nei suoi ideatori via via che i dubbi e le critiche emergono, ed una telefonista di Longarone.
Lui si salverà, e lo si rivedrà nella scena conclusiva in cui enuncia una presa di posizione morale precisa – non perdonerà -, mentre quella che nel frattempo ne è diventata la moglie morirà travolta dall’onda, insieme al primo figlio, non ancora nato. Il vedovo passerà il resto della vita nel paese sotto al monte franato, senza mai risposarsi né mai dimenticare.

Una scena fra le più commoventi, fotografata malissimo da me

Il cast si fa notare: oltre al già citato Corona in versione più giovane e meno sgarruppata (nei panni di un certo Bepi dal cognome omonimo), troviamo Ateuil nel ruolo del detestabile Biadene, Gullotta in quello di Pancini (che rimprovera il superiore, o collega che sia, scoperto in chiesa a pregare in extremis che Dio gliela mandasse buona con queste parole: La religione non è un portafortuna, è una cosa seria!), ma anche un Philippe Leroy che si fa ricordare con poche, granitiche apparizioni ed una Morante in grande spolvero – immagino Tina Merlin in maniera parecchio diversa, ma questo tipo di personaggio mi pare adattissimo a lei.
Ma potrei citare diversi altri nomi, magari non altrettanto pronunciati ma pienamente entrati nella memoria visiva (cinematografica e televisiva) dei connazionali.

Leggo inoltre che il film ha vinto un Nastro d’Argento ed è stato candidato a due David di Donatello, che su MyMovies ha ottenuto un buon gradimento di pubblico (non da tutti, certo: c’è chi lo definisce una soap opera in salsa catastrofista), ma leggo anche una recensione assai dura di Maurizio Cabona su Il Giornale Nuovo (la trovate qui, insieme ad altre dai maggiori quotidiani). Dura ma puntuale, direi; e tuttavia io preferisco e mi rivedo nelle parole di Silvio Danese, sul Giorno:

Diranno in molti che il film voluto e diretto da Renzo Martinelli, che ha l’ambizione di diventare l’Oliver Stone italiano (dopo “Porzus” sulla strage tra partigiani), è enfatico, elefantiaco e incontinente nella misura epica (i paesani strapaesani, la stretta di mano tra la giornalista comunista e il prete ribelle, la reiterate riprese dal basso degli eroi e della diga).
Vero, se pensiamo al risultato estetico, con quegli attori tutti bravissimi e sovradosati (da Gullotta e Auteuil, da Leroy a Laura Morante e Perugorria), schierati come un esercito per dimostrare la potenza artistica in rapporto alla potenza della tragedia raccontata.
Ma la ricostruzione della verità di cronaca cade efficacemente sulla coscienza dello spettatore in un film d’impegno civile e denuncia storica in difetto per eccesso di solerzia narrativa. Da vedere comunque.

Bisogna, comunque la si veda, ricordare che Martinelli è stato il primo a tentare di rendere la strage (meglio strage di tragedia, più corretto) nella settima arte.

Leggi anche:
Una lezione inascoltata, di Stefano Marchesotti

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Articoli precedenti:
In montagna .1: I fantasmi di pietra, di Mauro Corona
In montagna .2: Vajont, storia di una diga

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