Novecento 9: Le assaggiatrici, di Rosella Postorino

Ce l’avevo nello “scaffale” intestato al Novecento, sul sito dell’ormai famoso circuito interbibliotecario, da un po’, e alla fine l’avevo pure rimosso: lo spunto narrativo mi intrigava – un gruppo di donne costrette ad assaggiare le pietanze preparate per Hitler prima di lui, per scoprire eventuali avvelenamenti o contaminazioni? Ottimo, lo prendo, grazie – e tuttavia ne avevo letto alcuni commenti non proprio entusiasti, nonostante avesse conquistato il Campiello. Poi mi è tornato sotto gli occhi e, avendo degli slot liberi per prenotare, l’ho fatto. Non me ne sono pentita.

Il romanzo

Ho scoperto un romanzo raffinato che non ha bisogno di un linguaggio forbito, capace di puntare dritto alla radice di sentimenti e motivazioni dei personaggi ma incidendo come un bisturi, non discorrendone come un’analista.
C’è il ritmo, ci sono i dialoghi, c’è un passo che sembra perfettamente calibrato; come scrive Federica Angelini nella rubrica Nota del Lettore.
La vicenda pare sospesa nel tempo, per quanto le coordinate spazio-temporali non ci manchino. Ed ha un tono di fiaba che paradossalmente rende più vicino e concreto tutto. È bene specificare tuttavia che l’autrice, Rosella Postorino, ha ricalcato solo in parte la storia di Margot Wölk, l’unica “assaggiatrice” superstite fra le quindici realmente vissute. In essa non c’è amore ma solo violenza, sia da parte tedesca che da parte russa.

Alle undici del mattino eravamo già affamate. Non dipendeva dall’aria di campagna, dal viaggio in pulmino. quel buco nello stomaco era paura. Da anni avevamo fame e paura. E quando il profumo delle portate fu sotto il nostro naso, il battito cardiaco picchiò nelle tempie, la bocca si riempì di saliva. Guardai la ragazza con la couperose. Aveva la mia stessa voglia.

Rosa Sauer, protagonista fra le altre e narratrice, non ama il regime come alcune compagne, sa che in esso stesso è il nemico, prima che altrove, eppure non fa alcuno sforzo per convincerci, giustificarsi, spiegare chi fosse e come vivesse, come scegliesse di stare nel suo tempo, nella sua epoca: è credibile per questo, è realistica e non il simulacro del nostro moderno senso di colpa, figlia del bisogno di razionalizzare.
Hitler è ovunque, a due passi da loro nella Wolfsschanze così come nei loro corpi, astrattamente e fisicamente al servizio del dittatore. I corpi delle donne nel refettorio, i corpi degli uomini in battaglia. Eppure quell’uomo terribile non riesce mai a comparire con sembianze davvero, e soltanto, intimorenti:

Poi avevo alzato il viso e intercettato il ritratto nella vetrina: l’aureola spennellata intorno alla testa era gialla, e lo sguardo burbero, neanche avesse appena scacciato i mercanti dal tempio. Ci eravamo baciati davanti ai suoi occhi. Era stato Adolf Hitler a benedire il nostro amore.

La Postorino maneggia bene l’ironia, senza lasciarla tracimare in sarcasmo. Il ridicolo vince sul grottesco e sul macabro – perché dopotutto lei, la sua Rosa, è un’assaggiatrice: è mangiare è vivere.

La postura di tre quarti, lo sguardo frontale. Gli occhi sdegnati, appesantiti dalle borse, le guance flaccide. Indossava un lungo soprabito grigio, aperto abbastanza per sfoggiare le croci di ferro guadagnate nella Grande Guerra. Teneva un braccio piegato, un pugno sul fianco: sembrava una madre che rimbrotta il figlio, altro che un combattente; una moglie che si riposa un attimo, dopo aver strofinato con la liscivia i pavimenti. C’era il lui qualcosa di femminile, tanto che i baffi parevano posticci, incollati per un imminente numero di cabaret: non ci avevo mai fatto caso.

Il corpo in gioco è anche quello delle vittime che siamo noi tutti – le vittime delle circostanze – che può aspirare a sopravvivere e perpetuarsi, oppure propendere per punirsi e farsi punire, annullarsi in altro.
Rosa esprime in maniera eccellente entrambe queste spinte pulsionali, senza, di nuovo, aggiungere didascalie e prese di posizione. Non è naturalmente l’unica a subire l’attrazione dell’auto-dissoluzione entro un mare più ampio – si chiami esso col nome di un uomo, di Germania o altro.

[…] Leni […] aveva accolto l’interesse di Ernst senza controbattere, senza domandarsi se lo desiderava. Aveva aderito al desiderio di lui quasi rispondendo a un incarico che non poteva rifiutare. Era la vittima esemplare, Leni. Se non avesse avuto così tanta paura, fra tutte noi sarebbe stata l’assaggiatrice perfetta.

Rosa, invece, accoglie l’interesse – nato per una stuzzicante coincidenza – di un Obersturmführer delle SS che, dopo un primo periodo di “lavoro” nella mensa della caserma Krausendorf, arriva a dirigerla. Intratterrà con lui, Albert Ziegler, un rapporto che non esita a definire d’amore. Dapprima lui la osserva alla finestra, dal buio della strada, poi lei lo raggiunge e lo conduce nel fienile della casa degli suoceri, dov’è ospitata da quand’è fuggita da Berlino. Seppure non si pentirà né rinnegherà quel sentimento, esso porterà anche ad una disgrazia imprevista ma della quale Rosa non cesserà di sapersi responsabile: ha fatto una scelta, o meglio ha corso un rischio consapevole, almeno in parte, di quel che avrebbe significato se le cose fossero andate per il verso sbagliato… come infatti accade.
E questa scelta, con le sue conseguenze su una delle altre assaggiatrici, si riverbererà in modo cruciale sul proseguio dell’intera sua vita.

La vera assaggiatrice: Margot Wölk

Fissazioni dittatoriali

Un veleno può essere inodore, insapore, non lasciare tracce ed è quindi l’arma perfetta per uccidere qualcuno, come insegnano i film di spionaggio, le tragedie shakespeariane e le leggende antiche, ci ricorda questo articolo de Il Post. Come pure, aggiungerei, la cronaca più e meno recente: chiedere, per esempio, a Litvinenko.
Se gli assaggiatori per conto di eminenti figure storiche abbondano (se ne servivano persiani e macedoni, romani…), il timore di essere avvelenati e, in generale, l’ossessione per la purezza del cibo non difettano certo nemmeno ai dittatori moderni.

Kim Jon-Il, il “caro leader” padre dell’attuale Kim Jong-Un, faceva ispezionare ogni singolo chicco di riso da una squadra di donne: ciascuno doveva avere la medesima forma e colore.
Ceausescu portava con sé il proprio cibo all’estero, stupendo e talvolta irritando, per altro, i suoi ospiti.
Per lo meno, non rischiava di ingerire feci… di contadini bulgari, come invece scopro essere uso a fare Hitler, che ne assumeva un estratto insieme ad altri 27 farmaci contro la flatulenza (what the fuck?!).
Mussolini, au contraire, soffriva di stitichezza e pare adorasse imbottirsi d’aglio alla sera, con gran disappunto di Donna Rachele.
Stalin era invece più un godereccio crapulone che un terrorizzato palinculo. Ma, come ci informa Smart Week,  la cosa più interessante, forse, è che il cuoco preferito di Stalin era un certo Spiridon Putin: se il nome vi dice qualcosa, ebbene si, era il nonno di Vladimir Putin.
Idi Amin Dada, despota ugandese, aveva una fissazione stramba e francamente insostenibile: sosteneva che consumare 40 (!) arance al dì fosse afrodisiaco. Per quanto mi riguarda, dubito ci arrivasse e, nel caso, che gli effetti fossero altro che distruttivi…

… c’è insomma di che sbizzarrirsi.
Se il Dalai Lama (e non solo) si fa sempre accompagnare da un assaggiatore di fiducia, il quale tuttavia ha il compito di verificare che il cibo destinato al mentore spirituale tibetano rispetti i canoni e le preferenze del commensale più che di evitargli attentati, le “cavie” umane sono state via via rimpiazzate, ahiloro, da vere cavie. O più precisamente, da topi.
Come ci svela ancora Il Post, nel 2003 il governo thailandese fece provare il cibo per il presidente George W. Bush, in visita nel paese, ai topi: essendo piccoli, il veleno avrebbe anche agito rapidamente su di loro. Il governo cinese fece lo stesso alle Olimpiadi del 2008 per proteggere gli atleti, mentre da tre anni il palazzo presidenziale turco ospita un laboratorio in cui i topi assaggiano le pietanze per il presidente Recep Tayyip Erdogan.
Un bel vaffanculo ci sta. Per questa gente, altro che stricnina: ci vorrebbero i ratti usciti dal NIHM.

Un frame da “Brisby ed il segreto di NIHM”, di Don Bluth
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