Il settimo anno

Io e l’Arrotino stiamo affrontando un periodo di moderata turbolenza, che stamattina riflettendo, ancora a letto, ho ipotizzato poter coincidere con la mitologica “crisi del settimo anno”.
Un anno di vita insieme, per noi che siamo come i cani, equivale infatti a sette anni umani – pazienza se i conti non sono proprio esatti: fatto sta che in ogni caso, finora, abbiamo bruciato le tappe.
Del resto a che scopo indugiare quando la traccia è chiara ed il percorso stabilito? Così, forse dovrei esser contenta che certi malintesi e “difficoltà di incastro” si mostrino presto, per potercene occupare, e non rimangano invece latenti.
Sono i nostri vicendevoli limiti a farsi sentire – ma soprattutto i miei.
I miei di me che nella convivenza non temporanea mi sento nuovamente derubata della mia libertà ed autonomia, finalmente ottenuti dopo anni di agonia. Il senso di soffocamento va e viene, ma resta l’oggettività dell’aver perduto la padronanza sulla mia esistenza, spostato all’esterno il locus of control; più prosaicamente interrotto il mio percorso minimalista, e delle molte rinunce alle cose piccole di cui non posso più disporre (e le piccole, per chi non le ha mai godute, sono più importanti delle grandi); l’Arrotino più volte mi disse, nei primi tempi della relazione: Se sto con te voglio poterti migliorare la vita, non renderla più pesante. Ma la vita se ne frega dei propositi. Lui mi migliora la vita, ma al tempo stesso la rende più pesante.
Che fare dunque? Chi ce lo fa fare?
Io volevo, gli ho prospettato (e lui aveva accettato, almeno teoricamente) un rapporto LAT – Living Apart Together – che era poi la nostra condizione naturale di partenza. Ma poi, ha anche detto, Io sto meglio quando, vorrei che, stessimo insieme sempre. Cioè una convivenza costante. Alla fine, è questa che si sta concretizzando. Ed io, scissa a metà nei miei desideri ed intenzioni, consapevole dell’ireparabile che forse era già avvenuto, ho detto: Voglio che tu stia qui, senza limiti di tempo. La metà di me proiettata nel futuro vuole tagliare alla radice i dubbi; la tristezza per aver lasciato sconfinare un’altra persona, per quanto a me cara, in uno spazio che doveva restare esclusivamente mio; la frustrazione che la sua malattia-ignota-del-cazzo mi genera, con tutti i no che implica. La metà di me radicata nel presente vuole spezzare i condizionamenti e respingere ciò che non ho scelto. O forse, chissà, è il contrario: è il futuro di cui mi sento defraudata e non il presente, che poteva alloggiare anche qualcosa di diverso dai miei progetti purché non eterno.
Eppure, io l’Arrotino l’ho scelto, e per l’eterno appunto.
Contraddizione, complessità o norma della condizione umana?

Addirittura si è percepito, in determinati frangenti, come mio nemico o persona estranea dalla quale mi stavo difendendo.
In parte dipende dalla mia beata ingenuità, oltre che alla tendenza borderline che scinde nettamente, alla bisogna, emotività e pensiero razionale (e per di più nella certezza che, se spiego una cosa chiaramente e con le dovute precisazioni, l’interlocutore la recepirà così com’è, nella sua linearità e limpidezza, senza possibilità di fraintendimento a meno che non sia stupido, e senza innecessarie interpretazioni).
In una recente occasione, prima di chiedere alla psycho di aggiungere lo Xanax fisso anziché al bisogno, ho avuto un episodio di discontrollo con un’eruzione di rabbia, che alla lunga (un’ora e mezza) ho vòlto in furore freddo, e convinta di poterlo utilizzare utilmente ho fatto all’Arrotino un discorso duro. Lo pensavo risolutivo, pensavo d’esser stata troppo blanda nel far presenti le difficoltà che mi crea (con la sua indole, in questo caso, non a causa della malattia-ignota-del-cazzo della quale non ha colpa) e poco efficace. Il risultato è stato questo: non ha capito un accidente, ma niente niente, di quello che io ritenevo un conciso, incisivo ed elementare comunicato. E, nondimeno, gli ho fatto del male.
E’ un uomo, e non ragiona come una donna.
E’ un altro da me, e non ragiona come me.
E’ un individuo, e soltanto in un luogo mistico (ho detto mistico, non mitico) che Cristo conosce ed io farfuglio appena possiamo essere davvero “una cosa sola”.
Ma è un estraneo? E’ mio nemico? No.
Solo, gli esseri umani sono creature deboli, legni storti buoni giusto per zattere che, senza la spinta delle correnti sotterranee, affondano.

Individuo vuol dire indivisibile, il che ci rende unici e differenti da tutti.
Siamo soli in mezzo a tanti e anche se questo ha risvolti che ci fanno odiare certe notti problematiche, quando ci struggiamo perché crediamo di non avere nessuno che ci capisca davvero, in realtà stiamo solo vivendo una banalissima verità che dovremmo solo accettare ed individualmente risolvere strategicamente.

Come canterebbero i Jethro Tull, it’s up to me.

Altro su convivenza e libertà da questo blog:
Un mezzo per un fine
&
Egitto, libertà e simbionti
&
Una cosa sola
.

Sul Living Apart Together, leggi anche:

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18 pensieri riguardo “Il settimo anno

  1. Invidio la tua capacità di aprirti così tanto facendolo con uno stile così lirico (non mi vengono altre parole). Così come, da maschio, sono contento della presa d’atto che la mia categoria non pensa come voi donne: sembra banale, ma bisogna sempre sottolinearlo. Ciò che per voi è ovvio, noi lo chiamiamo “epifania” ^_^

    Parlando esclusivamente dal punto di vista emotivo, avendo lottato a lungo per avere anche solo una parvenza di controllo sulla mia vita hai tutta la mia comprensione su quell’aspetto, il che però mi rende la persona peggiore per parlare di rapporti umani: mi limito a leggerti con piacere 😉

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    1. Ti ringrazio, caro Etrusco: che poi è proprio la lingua che risuona alle orecchie maschili quando una donna parla loro…! (≧▽≦)
      Mi solleva sapere che il post non era arzigogolato e criptico come mi capita di scriverne. Sto lavorando per il Do di petto! 🙂

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  2. Nella convivenza perdiamo necessariamente la padronanza esclusiva della nostra esistenza, ma è bello anche affidarne una piccola parte (ho detto piccola, bada bene) all’altro. Credo che il segreto perché funzioni, sia la reciproca volontà di esserci per l’altro, senza però invadere. Cosa che certamente non è facile.

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  3. Per me le cose sono molto chiare. Insieme stiamo meglio che separati. Capisco il tuo percorso minimalista che vuoi portare avanti, e mi rendo conto che per tanti versi io rappresento un “impedimento”. Tuttavia, sono convinto che quel percorso lo puoi portare avanti lo stesso, forse più lentamente, ma non lo devi abbandonare, ci mancherebbe.
    Domandona: ma sei davvero sicura che vivendo qualcosa tipo sei mesi assieme e sei mesi separati saresti più felice, considerando tutto?
    Sbaglierò ma penso che sia una semplificazione mentale, ovvero una cosa che uno crede o tende a idealizzare, ma poi quando ci si ritrova si scontra con un’altra realtà. Rammento bene quanto stavamo peggio quando eravamo separati, la mancanza continua che avvertivamo. Detto questo, può essere che ciò valga per me ma meno per te. In caso, possiamo provare questa alternanza. Ma ho come l’impressione che l’abbiamo già sperimentata…

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    1. Risposta alla domandona: no. Anzi, sono sicura che starei peggio.
      Il punto è: o tutto o niente; o case separate (ma nella stessa città, e preferibilmente molto vicine se non nello stesso edificio), o tanto vale convivere stabilmente (tutt’al più, come abbiamo già ipotizzato, mantenendo potendocelo permettere almeno una stanza ciascun per sé).
      Insieme stiamo meglio che separati, non c’è dubbio.
      E dunque va bene così: tu sei già nell’ottica giusta, sono io che devo ritrovarmi. Per altro, la fede ha in questo un gran peso; non che l’abbia persa (naturalmente no), ma ne sono obiettivamente lontana. E se non me ne nutro, inaridisco (e le conseguenze si vedono).
      Insomma, tu hai ragione e, al di là dei miei necessari sfoghi e delle mie rielaborazioni periodiche, ciò che ti ho detto pochi giorni fa – che voglio tu resti, stavolta indefinitamente – è valido: non era un’esternazione dettata dall’ansia di sciogliere la tensione, ma una risoluzione che preso per intuito (che è una forma di razionalità).
      Certo che ce la facciamo.
      Sono lenta e cocciuta, ma sono qui.

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